Rifiuta ogni riferimento diretto a una storia autobiografica, preferisce parlare di autofiction, rievocando un filone letterario molto contemporaneo. Alejandro G. Iñárritu è sereno, conciliato e a suo agio, quando incontra la stampa italiana all’Hotel Excelsior, in occasione della presentazione in concorso di Bardo, la cronaca falsa di alcune verità, il suo nuovo film. Si ferma solo un attimo quando ricorda di aver perso un bambino appena nato, Luciano, con la sua compagna, ormai 26 anni fa, proprio come accade al protagonista del film.
È la storia dell’intimo viaggio di Silverio, un noto giornalista e documentarista messicano che vive a Los Angeles. L’uomo, dopo aver ricevuto un prestigioso riconoscimento internazionale, è costretto a tornare nel suo paese natale, ignaro che questo semplice viaggio lo spingerà verso una profonda crisi esistenziale. La follia dei suoi ricordi e delle sue paure riesce a perforare il presente, riempiendo i suoi giorni di un senso di sconcerto e stupore.
“Viviamo in un mondo in cui il reality è non esistenza, qual è il confine fra realtà e finzione? Almeno ce ne stiamo recendo conto”, ci dice. "Arriva un’età, però, in cui tenti di dare un senso alla tua vita, ti rendi conto che gli anni davanti a te sono meno di quelli passati. È vero che ognuno interpreta quanto accade in maniera molto diversa, in base alla cultura, alle idee e le emozioni dell’epoca. Non avrei mai potuto fare un film autobiografico, sarebbe stato noioso. La verità è noiosa, meglio un’interpretazione della stessa. Mi interessava raccogliere aneddoti, pensieri, paure, sogni che hanno segnato gli ultimi vent’anni, a partire da quando ho lasciato il Messico e mi sono trasferito a Los Angeles”.
Un successo, quello di Amores Perros, che gli ha cambiato la vita. “Mi ha permesso di essere un emigrante di prima classe, come il protagonista del film. Non corrispondo allo stereotipo di chi lascia il paese perché costretto dalla mancanza di opportunità. Sono andato per mia volontà, per trovare il mio futuro, nuove cose. Il successo è dolce e amaro. Ti trovi in una posizione privilegiata, fortunata, non c’è dubbio, ma allo stesso tempo ti impone obblighi e aspettative. Niente è abbastanza, sei costretto ad andare più in profondità, anche se sarebbe ridicolo lamentarsi. È vero che il successo però reclama un costo personale, ti dedichi a costruire una carriera e sacrifichi la vita. Il cinema poi richiede molto dal punto di vista sia fisico che intellettuale. Ti mancano poi delle cose che hai perso della tua famiglia, il tempo passa velocemente. Sarò più presente e rimpiango di non esserlo stato prima. Da giovane non ci pensi, ma ora a 60 anni il lavoro inizia a diventare secondario rispetto alla vita”.
Il titolo, Bardo, rimanda al “passaggio dell’anima nel buddismo tibetano dal corpo all’aldilà. Uno spazio, come per il limbo per i cattolici, in cui aspetti di essere incarnato, invece che di andare in paradiso. Io mi sento in una sorta di terra di nessuno, troppo americano per essere messicano e viceversa. In una condizione tipica dei migranti, in cui non sei dentro al vetro, ma cammini sull’orlo, puoi finire da una parte o dall’altra. Sei vulnerabile. Per me questo è il bardo. Per me la svolta c’è stata nel 2012, quando ho iniziato un percorso di meditazione con il monaco vietnamita Thích Nhất Hạnh. Mi sono liberato, ho iniziato a ridere di me, dei miei pensieri e delle mie certezze. A condividere con onestà, senza paura, a liberarmi di tante cose che si erano stratificate dentro di me”.
Ha invocato San Fellini, per proteggere questo film, dicendo che tutti i registi gli devono qualcosa, ricordando poi come per la sua generazione sia stata un’esperienza trasformativa la scoperta del cinema, che ha cambiato la maniera di pensare e vedere le cose. Poi, come nel film, “presto succederà, sapete, Amazon che ha quasi 3 milioni di dipendenti, ed è più ricca di alcuni paesi, finirà per comprare uno stato, come viene detto nel film in relazione alla Baja California messicana”.
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