mercoledì 23 maggio 2018

Marcello, sale e grotta di Dogman

L'imbalsamatore, certo: per la coppia sbilanciata di individui, uno slanciato e l'altro minuto, che lottano e si attraggono in una vicenda che finisce malissimo. L'imbalsamatore per un buono e un brutto - che è anche cattivo – costruttori, insieme, di una misteriosa e macabra relazione. L'imbalsamatore anche per il paesaggio: lo stesso livido “Villaggio Coppola” del 2002, piovoso e arrugginito, abbandonato e lunare, di un fuori stagione eterno e plumbeo, respingente, vagamente post apocalittico. Ma c'è anche Il Racconto dei racconti, dentro Dogman, perché al suo interno bolle qualcosa di profondamente atemporale, di «antico» proprio come il volto di Marcello Forte, il protagonista del film, scultore di un personaggio complesso, enigmatico, misterioso. C'è qualcosa, in Dogman, di ancora più profondo e sordo rispetto al primo film di Garrone, ed è questo qualcosa di forte e inafferrabile, la vera forza del film. C'è qualcosa che rende Simone (un grande Edoardo Pesce, irriconoscibile e perfetto) come vittima di un incantesimo, come se qualcuno, una strega, boh, una maga, si fosse presa questo ragazzino(ne), un tempo, e lo avesse punito per essere così forte. E in questa terra senza tempo e senza coordinate geografiche riconoscibili, in questa landa sfocata e dannata, di ladri senza scrupoli e onesti senza sentimenti, in questo villaggio dolorosamente affabulato, Marcello - innamorato difensore della purezza e della bellezza – è l'unico con la forza, la volontà, e forse il destino, di andare a sprigionare quello che un tempo, forse, in un'infanzia remota, potrebbe essere stato (davvero) suo amico. Marcello potrebbe avere visto la tenerezza bambina di Simone, e continua a cercarla ancora, nonostante sia stata divorata da un maleficio, da un incantesimo, o da qualcosa del genere. Difende quell'essere indifeso di Simone, va oltre la sua atroce bestialità, contrasta, donandosi, fino al sacrificio della prigione, l'inconsapevole incapacità di Simoncino di smettere di soffrire, di rombare al massimo dei giri verso l'inferno. Marcello vede questo prima di ogni altra cosa, vede l'ululato lamentoso, lo strazio dell'amico prigioniero nel su e giù sfrenato di Simone a bordo di una moto potentissima, e perciò lo salva quando sta per prendere una martellata in testa, perciò lo carica in sella, ferito, dopo che gli hanno sparato per punirlo. Lo salva gratuitamente, come gratuitamente salva la vita a un cagnolino messo a congelare nel freezer, rischiando in prima persona per uno già spacciato, uno che vale poco, uno già condannato dal gruppo, da tutti. Questo è Marcello, certamente, e forse Simone lo sa pure; ma Marcello, probabilmente, non è solo questo: è anche la nostra incapacità di resistere all'altro, di contrastare le sue richieste destabilizzanti, perché sempre si fondono col nostro bisogno di stare in relazione, di avere l'altro che ci cerchi, di sentire che ha bisogno di noi, in un modo o nell'altro. In questo cortocircuito Marcello rimane imprigionato, schiacciato fino a farsi torturare, perché l'altro, quello che gli dona attenzione, l'unico in una comunità glaciale ed egoista, è il più difficile "amico" che gli potesse capitare, e il prezzo da pagare, purtroppo per lui, è altissimo. Ma non è uno solo al mondo, il povero Marcello, si potrebbe obiettare: ha una figlia bellissima, intelligente e dolce, che lo ama profondamente. Il dono più grande che uno possa ricevere dalla vita. E dunque? Perché non uscire facilmente da quell'incubo? Perché la nostra fame di amore è insaziabile, perché le fondamenta del nostro animo sono friabili, perché trovare l'abisso, in una relazione umana, è cosa possibile, e Garrone, con Primo amore ce lo aveva già ricordato. Perché la descrizione di chi siamo è destinata all'eterna parzialità. Come parziale, sebbene ampia, come parziale perché aperta, è la descrizione che possiamo dare del protagonista, l'interpretazione in cui possiamo avventurarci di questo Marcello garroniano, piacevolmente sale di Dogman, profonda grotta in cui addentrarsi - di questo film visivamente perfetto, quasi esageratamente splendido - che a modo suo, senza scadere mai nella parodia, ma anzi provocando continua inquietudine, fa incontrare Gomorra e Suburra: non solo perché il Villaggio Coppola è un'ideale metà strada tra i porti di Napoli e di Ostia, ma anche perché certe facce del primo film si mescolano a certe del secondo, tutte con grande efficacia, e gli accenti romani e napoletani, marcati e potenti, condiscono fascinosamente di realismo la fiaba e l'astrazione. E' Il cinema di Garrone, in fondo, sfuggente e pulsante di vitalità. Un cinema che anche stavolta sa come rimanere a lungo addosso, e smuovere un sacco di pensieri.



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