sabato 2 dicembre 2017

L’anatra zoppa da guarire: un bilancio del Torino Film Festival 2017


La neve (e la pioggia) è arrivata solo alla fine, deludendo però grandi e piccini - oltre al vostro scriba - che speravano in una dose ben più massiccia. Ma poco sarebbe cambiato se i tanti appassionati che hanno affollato le sale avessero dovuto armarsi, oltre che di pazienza per le file, anche di ombrello. Tre sale in meno si sono sentite quest’anno, al Torino Film Festival, proprio perché hanno rischiato di far disamorare qualche spettatore scoraggiato da tante attese e non pochi sold out. Ci sembrano queste le poco glamour mancanze su cui intervenire per il prossimo anno, con buona pace di chi sembra voler portare la rassegna piemontese verso un non ben precisato rinnovamento, magari inseguendo il benedetto red carpet o la “presenza delle star”. 

Eppure dovrebbe essere molto chiaro, specie per una manifestazione sostenuta dagli enti locali, che a quelle persone in fila devono rispondere i dirigenti che dovranno decidere il futuro del festival. Non cadano nel tranello di volere una foto in più a braccetto con qualche divo, non è questa l’anima di Torino, che deve preservare l’orgoglio di vantare sale piene, rispetto a molti altri eventi che avranno anche pieno il red carpet (magari riempito grazie al doping del gettone di presenza), ma nelle sale inseriscono le sagome in cartone come in Nel bel mezzo di un gelido inverno di Branagh. Ci sia perdonato il riferimento cinefilo.

Si usa tanto il termine identità in questi anni, spesso a sproposito, ma il Torino Film Festival un’identità ce l’ha, e di identità, come di genere, ne discute attraverso i film che presenta, con la fluidità di un dibattito che segue e coinvolge degli spettatori che hanno fiducia in quello che viene loro proposto. 

Non solo solo i cinefili duri e puri che invadono le sale della retrospettiva (quest’anno dedicata a De Palma, peccato lui non si fosse), ma anche, e soprattutto, quegli spettatori episodici che sanno quando è arrivato quel momento dell’anno e che, se hai un accredito al collo, ti fermano per chiederti un parere, qualche film da vedere, o semplicemente riconoscono un proprio simile. I numeri sono molto positivi, è un trend costante da anni; per il 2017 si parla di spettatori stabili rispetto all’anno precedente, ma con tre sale e molti spettacoli in meno.

Che si decida presto cosa fare per il futuro; si attende ancora la nomina del direttore generale del Museo del Cinema, che a sua volta dovrà nominare il direttore artistico, che secondo noi dovrebbe essere di nuovo Emanuela Martini, che quell’identità l’ha costruita, o almeno mantenuta, insieme ai suoi collaboratori. Questo vedono gli appassionati, se ne fregano delle beghe politiche o fra addetti ai lavori. Quest’anno c’era un clima un po’ dimesso, da anatra zoppa: sarebbe bello tornasse prima possibile l’entusiasmo. Anche in un anno non memorabile come questo, con qualche film di qualità in meno nella sezione Festa mobile e un After Hours non entusiasmante, rimangono molte visioni da portarsi a casa - pur nell’impossibilità di vedere tutto quanto propone un programma sempre abbondante -, e un concorso che riesce a proporre sempre nuovi nomi. Emozioni da preservare e su cui costruire il futuro del festival.

Un cinema britannico sapiente dispensatore di satira come Morto Stalin, se ne fa un altro, o quello continuatore dello spirito di Mike Leigh come Daphne di Peter Mackie Burns, il nostro preferito di Torino 35, con un’ostica e carismatica Emily Beecham. Ma c’è anche il cinema indie americano che si trasforma sotto l’influenza di altre culture, come quella iraniana di Anahita Ghazvinizadeh, in They, o il documentario francese sull’importanza della parola nell’era delle emoticon, À voix haute; senza dimenticare il cinema israeliano che unisce anoressia con la memoria in Don’t Forget Me di Ram Nehari.

Per il cinema italiano il concorso ha regalato il documentario sulla natura minacciata Lorello e Brunello di Jacopo Quadri e il ‘film scandalo’ Blue Kids, esordio di Andrea Tagliaferri, aiuto di Garrone, che ha anche prodotto. In generale il nostro cinema è stato presente in quantità, come a Venezia, ma non proprio in qualità; la maggiore eccezione è stata la grande sorpresa di quest’edizione, Tito e gli alieni di Paola Randi.

Continuando a parlare di Festa mobile belle visioni sono state quelle de L’ora più buia, Wind River, Cento anni, Smetto quando voglio ad Honorem, The War is not over, La cordillera e in fondo anche le sorprese Professor Marston & the Wonder Women e Dickens, o il divertente e non banale The Disaster Artist di James Franco, nella sezione After Hours. Qualche parola in più merita il film di chiusura, The Florida Project, film dell’habitué di Torino Sean Baker con un budget più solido rispetto al solito. Non cambia la sua capacità di catturare magistralmente la realtà più marginale degli Stati Uniti, in questo caso il lato oscuro dei lustrini di Disney World Orlando, anche in se il protagonista è un attore conosciuto come Willem Dafoe. Presi al solito dalla strada sono dei ragazzini fenomenali, vere mine vaganti pronte a sabotare dall’interno la variopinta comunità che ruota intorno a un motel a pochi passi dal parco divertimenti.  

L’umanità alle prese con ferite sanguinolente, ma non esibite, che cercano di andare avanti come niente fosse, anche se i muri sono scrostati e la voglia è poca. Privi di quasi ogni orpello, dimostrano di voler andare avanti, un passo alla volta, un dialogo alla volta con il proprio vicino. Torneremo presto a riparlare di The Florida Project, che uscirà per Cinema distribuzione nel corso del 2018, non si sa ancora quando.

Per quanto riguarda il Torino Film Festival, rimangono altre proiezioni per i torinesi, anche domani, e poi subito a lavorare per far chiarezza sul futuro e rimettere in piedi e pronta a correre questa benedetta anatra zoppa.



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