lunedì 19 giugno 2017

Alain Daniélou: il labirinto di una vita - Biografilm Festival 2017

India anni Trenta. Due uomini occidentali, fidanzati, in giro per terre sconosciute in roulotte. Non si tratta di antesignani fricchettoni alla scoperta di se stessi nel misticismo indiano, bensì di Alain Daniélou e Raymond Burnier, un danzatore musicista francese di origini altolocate (padre ministro socialista e fratello cardinale) e un fotografo appassionato di arte indiana. Finiscono nell'ashram in Bengala di Rabindranath Tagore, scrittore premio Nobel che lì aveva fondato una scuola, si innamorano della pace del luogo e degli insegnamenti del maestro, si stabiliscono per un periodo. Successivamente si trasferiscono sulle rive del Gange, fiume sacro all'induismo, dove vivono nel palazzo di Rewa per quasi 20 anni. Durante il soggiorno indiano Daniélou studia il sanscrito, i testi vedici, la filosofia, la musica e la danza indiane, alla ricerca di un'armonia fra natura e spirito. L'occidente gli andava stretto (come forse lui all'occidente), ci si sentiva fuori posto: l'India gli permette la ricerca interiore di cui ha bisogno. Nella casa sul fiume riceve visite di personalità indiane e occidentali: Jawaharlal Nehru, Jean Renoir (durante le riprese di The River), Cecil Beaton, Eleanor Roosvelt, Roberto Rossellini. 
È la visione complessa e articolata della metodologia di Daniélou, illuminato musicologo con l'attitudine a far circolare la bellezza nel mondo (a lui si devono le registrazioni dei canti tribali delle popolazioni orientali mai ascoltate prima fuori dai loro paesi d'origine: dal 1950 Daniélou diventa curatore della prima collezione mondiale di musica etnica classica per l'Unesco), che viene raccontata nel complesso e bel documentario di Riccardo Biadene, Alain Daniélou: il labirinto di una vita. Tornando sui passi del grande uomo, Biadene si reca in India, a Varanasi, a Pondicherry, a casa Tagore, a Berlino all'Istituto di Musica Comparata, a Zagarolo, vicino Roma, dove Daniélou, nel 1980, decise di spendere gli ultimi anni della sua vita in una villa labirinto (sede anche della fondazione Harsharan, ora India Europa di Nuovi Dialoghi, fondata nel 1968 dopo la morte del suo compagno Raymond Burnier).
Un materiale denso e ricchissimo di interventi, dalla nipote all'ultimo compagno di vita, ai collaboratori, a danzatori e musicisti indiani, a studiosi di etno-musicologia, cinquantasei persone in tutto, raccontano l'uomo unico e di genio. Il flusso narrativo è travolgente, le foto, le statue erotiche dei templi indù, il Gange, l'umanità speciale, il senso di un tempo che non c'è più, la magia delle prime volte, tutto questo sommerge e disarma da resistenze western lo spettatore, coinvolto in prima persona in una immersione da capogiro nel labirinto di una vita (titolo dell'auto-biografia di Alain Daniélou). L'intenzionale volontà registica di incuriosire e appassionare ad una materia poco conosciuta colpisce nel segno: si esce dalla sala col desiderio ardente di ascoltare dal vivo degli interminabili e ipnotici raga di musica classica indiana o di vedere le espressioni eccessiva, codificate formalmente in mudra, di una ballerina di danza Bharata Natyam. Desiderio, ahi noi, assai difficile da esaudire.

(Alain Daniélou: il labirinto di una vita); Regia: Riccardo Biadene; sceneggiatura: Riccardo Biadene; fotografia: Matteo Cocco, Simone Pierini, Michele Nassuato; montaggio: Desideria Rayner; produzione: Kama productions; distribuzione: Poorhouse international; origine: Italia, Svizzera, 2017; durata: 78'



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