domenica 30 ottobre 2016

Io, Daniel Blake

Io, Daniel BlakeMr. Loach, I presume. L’ottuagenario Kenneth, scrutatore indiscreto come non mai delle drammatiche contraddizioni ammonticchiate in questo mondo libero, ha incamerato la seconda Palma d’oro in dieci anni (la prima fu per l’epico-lirico Il vento che accarezza l’erba) con una pellicola che pubblico e critica si aspettavano, in fondo, da lui e per la quale suona cinico mobilitare la denominazione di working class movie, dato che asse di rotazione, molto inclinato, di Io, Daniel Blake è un uomo impossibilitato da un tracollo fisico a svolgere il suo lavoro.

Newcastle. Vedovo e canuto, Daniel, per colpa della cardiopatia che lo affligge, perde il posto di falegname che rappresentava la sua sola fonte di reddito. Strozzato dalle maglie strette di un welfare cavilloso e grottesco, vistosi negare il sussidio per gli ammalati perché non abbastanza invalido, deve intraprendere un iter spossante per ottenere l’obolo elargito ai disoccupati. Deciso a difendere i propri diritti, finirà smembrato da una burocrazia anaffettiva, ma troverà amicizia e solidarietà sincere in una derelitta, Katie, appena giunta da Londra con vane speranze, una fame divorante e i due figlioletti, ai quali si aggrappa testarda come la protagonista di Ladybird ladybird ai suoi molti pargoli.

Evitiamo di buttarla in politica ricordando al regista, adiratosi nel corso dei decenni con vari governi britannici e già proclamatosi detrattore di Theresa May, che capitalismo e liberismo non sono soltanto “lacreme e ‘nfamità”. Atteniamoci al mero dato cinematografico. Ebbene, il vecchio Ken ha saputo fare di meglio.

Variety evoca Vittorio De Sica, Fabio Ferzetti ha parlato di un incrocio tra Umberto D. e La legge del mercato. Tutti paragoni lusinghieri. Fin troppo. Forse della poetica di Cesare Zavattini qualcosa c’è nella sceneggiatura di Paul Laverty: la pietas nei confronti degli umili; il pedinamento premuroso del protagonista nella valle desolante della sua quotidianità. E desichiani, parliamo naturalmente del De Sica neorealista, nell’approccio di Loach sono sia l’adozione di uno stile disadorno, intonato alle vite tapine dei personaggi, sia il ricorso a interpreti presi dalla strada nei ruoli secondari o, per i ruoli principali (Dave Johns e Hayley Squires, ambedue molto credibili, sono, in realtà, attori professionisti, lei pure drammaturga) performer dall’aspetto di persone comuni e liberi da fardelli divistici. Sì, c’è del buono, al di là di comparazioni magari tirate. Il fatto che Loach sia passato, anche più di una volta, per banchi alimentari e associazioni caritatevoli, conferisce verità a certe parti. Non manca di arguzia, poi, la lettura dell’informatizzazione del settore pubblico come efferata espressione della crescente distanza tra il sistema e l’individuo, tanto più marcata se l’individuo è un analfabeta tecnologico come Blake. La discrepanza tra progresso tecnico e progresso morale, chioserebbe Carl Schmitt. E anche la fotografia non è male. Anzi, la predilezione per inquadrature statiche traduce bene il blocco che intrappola Daniel, Katie e quelli come loro.

Io, Daniel Blake

Le pecche, tuttavia, superano i pregi. L’inguaribile faziosità ideologica di Loach e Laverty porta a divisioni settarie tra le forze in campo e, nel contempo, all’accondiscendente indulgenza verso personaggi che meriterebbero un po’ di severità in più: i funzionari che applicano le regole sono bacchettoni glaciali mentre i diseredati che organizzano il mercato nero delle scarpe acquistate on line dei simpaticoni (perché poveri). Il copione risente, poi, di alcune interruzioni di senso (perché Katie, dopo aver respinto Daniel con tanta foga e indicibile vergogna, gli torna così calorosamente accanto?), di dialoghi eccessivamente didascalici e di un buon gusto non sempre vigile e presente (a suggello della sequenza in cui Blake imbratta i muri dell’edificio delle politiche sociali osannato dai passanti manca solo il cartello “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”). Ma, soprattutto, il talento che, stavolta, è mancato alla stabile accoppiata Loach-Laverty, e non si tratta di una mancanza da poco in un’opera tesa alla raffigurazione di spaccati di vita ordinaria, è lo stesso che rifulge, sempre, nei lungometraggi del conterraneo Mike Leigh: il naturalismo di un’intimità catturata nei suoi moti e nei suoi scarti minimali, anche se non hanno, presi da soli, un messaggio da comunicarci. Ogni sequenza, invece, in Io, Daniel Blake, sembra volerci consegnare, spesso con piglio sentenzioso, un caso esemplare o un insegnamento, fino a giungere, attraverso un montaggio paratattico non proprio lieve, al “martirio” finale, utile a impartire la lezione definitiva.

Per indignare le masse, ormai, basta poco. Da Loach, tuttavia, era lecito attendersi di più.



from Cinema – Fucine Mute webmagazine http://ift.tt/2e0HKBw

Nessun commento:

Posta un commento