Detesto i coccodrilli e i post di circostanza, che si scrivono quando un personaggio noto scompare, ma stavolta farò un’eccezione, voglio spendere due parole per Bud Spencer, il noto attore recentemente scomparso. Tutti avranno visto, almeno una volta nella loro vita, un suo film. Egli è stato il prototipo del gigante buono, dell’eroe senza macchia, e ha dato vita, assieme al suo collega Terence Hill, a un paio di generi cinematografici gustosi e originali: il fagioli western e l’action comedy all’italiana.
Nei giorni scorsi, alcune testate nazionali hanno riportato la notizia della sua morte, limitandosi a dire che era nato a Napoli, aveva girato centotrentacinque pellicole, pesava centoventicinque chili e portava scarpe numero quarantasette.
Ma Bud, al secolo Carlo Pedersoli, era molto di più, era l’amico che molti avremmo voluto avere, l’uomo che, incrociando per strada, ti veniva spontaneo salutare o abbracciare. E ciò per una ragione molto semplice, perché era una brava persona, un vero galantuomo, lontano mille miglia dalla prosopopea e dalla supponenza delle cosiddette “stelle dello spettacolo”, che si danno un sacco di arie, anche se hanno fatto soltanto qualche comparsata.
Pirandello sosteneva: “È molto più facile essere eroi che galantuomini”. Bud è stato entrambe le cose, sia sullo schermo che nella vita privata: sempre rispettoso nei confronti di tutti, specialmente delle donne. Nutriva una sincera venerazione per la moglie e questo ha fatto sì che il suo matrimonio durasse ben cinquant’anni.
Nonostante l’imponente mole ed il ghigno da duro, era una persona mite e generosa, odiava la volgarità e il turpiloquio; infatti nelle sue pellicole, non si trovano mai scene scabrose o parole fuori posto.
I suoi sono film semplici, lineari, senza pretese, divertenti, ma non possono certo annoverarsi fra i capolavori; e l’artista partenopeo lo sapeva bene. Fu per questo che rifiutò l’offerta di lavorare con Fellini. “La ringrazio, ma non sono un attore”, rispose umilmente quando il Maestro gli propose di scritturarlo per il suo Satyricon, e aggiunse che non faceva teatro, perché lo riteneva un genere riservato agli attori veri.
Si è parlato spesso della violenza dei suoi film, nei quali legnate e scazzottate non si lesinano. Si tratta però di una violenza ironica, paradossale, di taglio decisamente fumettistico e perciò divertente e innocua, adatta anche ai bambini. Basta vedere gli esilaranti cinque minuti finali di Charleston per rendersene conto.
È una violenza che non va confusa con quella degli autori splatter, non tanto perché le pellicole di questi ultimi propongono sangue e morte a profusione, quanto perché il loro intento umoristico non è affatto scontato.
Vi sono autori che spacciano le proprie pellicole sanguinolente come opere ironiche, mentre in realtà vogliono compiacere la parte più retriva ed oscura celata dentro di noi.
Nel suo volume intitolato Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo, Leonardo Gandini sostiene che: “La nostra civiltà non ha mai smesso di provare un’attrazione colpevole per la violenza”.
Ma il problema vero non consiste nella percentuale di brutalità e sangue presente sullo schermo, quanto nella prospettiva morale che la sorregge, se essa in definitiva premia il Bene e punisce il Male, secondo una dicotomia sia pure ingenua e superata, ma indispensabile ad una società inquieta influenzabile e dall’agire spesso aberrante.
Le frenetiche scazzottate dei film di Bud Spencer sono giustificate da ragioni chiare ed incontrovertibili, hanno una loro etica. Bud incarna un modello d’eroe positivo: burbero e umano, forte e incruento, brusco e indulgente, sempre tempestivo e provvidenziale e per questo amato dai bambini e dalle persone miti.
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