La rivoluzione copernicana dello sguardo è evidente sin dai primi due cartelli dei titoli: capovolti.
Li vediamo a testa in giù perché è a testa in giù Keith, il bambino che, all'inizio di Grill Dog guarda la televisione.
La forza della soggettiva, sin da questo primo gesto registico che è quasi un ammiccamento, deborda rispetto ai limiti contenitivi dell'inquadratura e invade gli spazi esterni della confezione. Si infiltra negli spazi della post produzione e permea di sé anche il senso stesso dell'architettura complessiva. Lo vedi già prima dell'immagine stessa, prima della proiezione, nei tempi astratti e invisibili dell'ideazione, nella pazienza del momento di scrittura, nel lavoro di ricerca del cast e, quindi, nel lavoro con gli attori, con gli spazi, con le luci e con i colori.
Grill Dog non è semplicemente un film girato ad altezza di bambino. Già da questa prima inquadratura, il corto dimostra di volersi bambino esso stesso, senza per questo rinunciare allo sguardo adulto.
È un film che definisce una rivoluzione copernicana dello sguardo sull'infanzia partendo dal principio korczakiano che per vedere il mondo attraverso gli occhi dell'infanzia non bisogna abbassarsi, ma occorre mettersi in punta di piedi, nella speranza di raggiungere l'altezza di un bambino che di tanto supera la nostra misera mancanza di immaginazione.
I bambini di Grill Dog sono figli di una cultura di confine. Americani, spigliati eppure fragili. Costretti a vedersela da soli con la geografia incomprensibile degli affetti per la quale le mappe non danno mai sotto la X la vera posizione del tesoro.
Vengono chiusi in camera d'albergo, mentre i grandi vanno a divertirsi, ma sono abbastanza curiosi per sgattaiolare fuori alla prima tentazione. Capaci di amare i genitori che passano vicino forse un po' troppo distratti, ma con la candida convinzione di amare la televisione un po' di più perché, in fondo, è l'unica loro vera compagna di gioco.
I grandi, invece, sono figure astratte che eccedono i limiti bassi dell'inquadratura. Ombre di passaggio di cui scorgi solo i piedi e forse un po' le gambe. Voci che danno ordini che sono poco più che suoni, come i gracidii di cornetta che si sentivano nei cartoni animati dei Peanuts, un immaginario con cui Grill Dog intesse qualche debito che fa poi fruttare verso l'alto in un'improvvisa impennata di poesia.
Così i due fratellini protagonisti del racconto, non appena i genitori chiudono la porta, si apprestano a vivere un'avventura. Non chiedono molto. Riempire uno zaino di merendine, bibite e anche una bottiglia di birra, così per sentirsi un po' più grandi e andare lontano, con l'autobus e poi a piedi, a vedere le cascate.
Il più grandicello Collin è quello che sente nella gita una prima possibilità di affacciarsi al mondo adulto: vuole vedere le ragazze in topless, scoprire il mondo arcano delle tette, cominciare, insomma, ad annusare da lontano un po' di sesso.
Il più piccolo si accoda giusto per non restarsene solo in camera. E perché è destino dei fratellini un poco petulanti attaccarsi ai maggiori come piattole, a segno di un legame contorto, ma, alla fine, saldo.
Per strada incontrano un cane, legato a un bastone confitto nel terreno, vicino a una casa in cui al momento non c'è nessuno, e se lo portano dietro. Perché è socievole. Perché assomiglia a un cane che forse avevano. Perché si cerca, in fondo, di ingannare la fine dell'infanzia che bussa alla porta e sembra sempre più vicina.
Ma il cane è presto investito da una macchina di passaggio che neanche si ferma, ennesimo segno di un mondo adulto che non guarda nemmeno chi calpesta, e per i due ragazzi è l'inizio di una lenta agonia che si riempie di dolore.
E se per Keith la morte del cane riesce ancora ad essere la fine di un giocattolo, un lutto che si può affrontare, per Collin è, invece, lo specchio della fine del suo essere bambino e l'affacciarsi, scoperto e senza più compromessi, al mondo adulto.
Comincia piano e con pochi segni leggeri Grill Dog e poi cresce, nell'adagio, con la stessa carica utopica, piena di nostalgia e magia, di un fugato di quelli che Schubert solo sapeva mettere nei movimenti lenti della sua sonate maggiori.
Cresce nella capacità di entrare in confidenza con questi due bambini che si mangiano un poco alla volta ogni inquadratura per scavarsi un posto caldo nel cuore di ogni spettatore. Cresce nella precisione con cui descrive l'ineluttabile viaggio verso la fine di ogni incanto, quando le favole perdono pian piano quota e si depositano come la polvere scossa dal vento di una sterrata isolata.
E a ogni secondo che passa si riempie di significato senza perdersi in retorica, ma lasciando parlare i sentimenti con la loro lingua, senza nessuna forzatura.
Grill Dog ha una regia impeccabile non tanto per la capacità di mettere in immagine una storia tanto piccola senza sentire il bisogno di gonfiarla, quanto per la capacità di stare a un passo dagli attori, in punta di piedi, ad aspettare, con rispetto, la rivelazione del momento.
E l'inquadratura finale dei bambini che aspettano l'arrivo dei genitori, con il piccolo che mangia un gelato e Collin, ormai per sempre grande, che fissa il vuoto in cerca di un'impossibile consolazione, ha una forza mitica e una capacità epifanica che si era sentita tanto forte, almeno per chi scrive, solo ai tempi del De Sica di Ladri di biciclette e del Truffaut de Les Quatre Cents Coups.
Perché raccontare così tanto con così poco è un miracolo davvero molto raro.
Tweeting: Parabola di straordinaria forza drammatica e poetica sulla fine dell'infanzia.
Where to: In finale al Festival Internazionale Visioni corte.
(Grill Dog); Regia: Corey Aumiller; sceneggiatura: Corey Aumiller, Andy Siara; fotografia: Benjamin Dell; montaggio: Salvador Pérez García; musica: Miles Bergsma; interpreti: Britain Dalton, Toby Grey Toby Grey; produzione: June Bug; origine: USA, 2016; durata: 17'
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