venerdì 23 febbraio 2018

Eldorado

Due anni dopo Fuocoammare di Gianfranco Rosi i migranti africani che arrivano sulle coste italiane tornano a essere i protagonisti alla Berlinale (seppur stavolta fuori concorso) di un film documentario, intitolato Eldorado, un titolo evidentemente antifrastico che si spiega già nei titoli di testa sullo sfondo di uno di quei teli/cerate, color oro appunto, con cui si coprono i naufraghi bagnati e infreddoliti e anche quelli che non ce l'hanno fatta. Il film, fortemente autobiografico, è stato girato dal regista svizzero Markus Imhoof (1941), noto - oltreché per una valentissima carriera come documentarista l'ultimo documentario, di grande successo internazionale (con premi a volontà) ma che in Italia è uscito direttamente in DVD s'intitola direttamente in inglese More Than Honey (2012) sulle catastrofi ecologiche che stanno portando alla scomparsa delle api in giro il mondo– soprattutto per un film di finzione ma basato su dati documentali intitolato La barca è piena, un film risalente a trentasette anni fa che vinse l'Orso d'Argento a Berlino e che era incentrato sulla limitata accoglienza di profughi ebrei da parte della Confederazione Elvetica negli anni della Seconda Guerra Mondiale, secondo il principio di cui al titolo.

Con La barca è piena il film di oggi ha molto a che fare, anche in questo caso al centro ci sono dei profughi, di ora e di allora, anche questo film potrebbe chiamarsi come quello di trentasette anni fa. La causa scatenante dell'intero progetto - come spiega, con voce fuori campo, fin dall'inizio l'attore che “interpreta” il regista, che in tal modo autentifica drammaticamente quanto sta per raccontare – è una ragazzina italiana, orfana di guerra per parte di padre, che nei primi anni '40 venne assegnata alla famiglia Imhoof, di qualche anno più giovane del regista (nata nel 1936), con cui Markus a più riprese convisse, quasi fossero fratello e sorella. A più riprese perché in ben due occasioni Giovanna viene rispedita in patria, a seguito di nuove regole sull'immigrazione. Poi nel 1950, appena quattordicenne, la ragazzina morirà, forse anche a causa dei patimenti e della denutrizione sofferta dei primi anni di vita. Il film nasce dunque come la ricostruzione di una storia molto privata, in cui, in modo molto didascalico e anche un po' patetico oltre alla voce fuori campo del regista vi è anche la voce fuori campo di una donna italiana che parla con un forte accento e qualche sgrammaticatura che “interpreta” Giovanna, entrambi ricordano il passato, anche alla luce di fotografie e lettere che Imhoof ancora conserva con la massima devozione. Su questa storia di dolorosa e mai del tutto elaborata migrazione, il regista innesta l'indagine nella contemporaneità, quasi che Giovanna lo inducesse in nome suo, per conto suo a documentare le storie dei migranti di oggi. E allora Imhoof va con la sua macchina da presa in mezzo al mare ad affiancare l'Operazione Mare Nostrum, sale a bordo delle motonavi che ospitano fino a 1800 profughi portati in salvo e traghettati dai gommoni, parla con i sottufficiali, filma le complesse procedure sanitarie e burocratiche di accoglienza – e fin qui, almeno in parte, sembra di rivedere Fuocoammare, o almeno la sezione più squisitamente documentaria di quel film.

Eldorado è molto didascalico sia sul piano estetico che su quello ideologico. Sul piano estetico perché è il regista stesso a rivolgersi ai suoi interlocutori intervistandoli direttamente in italiano, un italiano più che dignitoso di un regista che per diverso tempo negli anni Settanta ha vissuto a Milano, ma anche questa è una chiara strategia di autentificazione. E sul piano ideologico perché presenta una neanche troppo larvata e scontata accusa alla convenzione di Dublino che obbliga i migranti a restare nel paese dove approdano, convenzione che italiani e greci accettarono perché all'epoca i flussi erano più da est a ovest che da sud a nord.
Meno scontata, anzi un autentico valore aggiunto del film è la parte in cui Imhoof segue o comunque prova a seguire parte dei migranti nel loro ulteriore tragitto verso nord, in Italia e poi anche in Svizzera. In Italia facendo ingresso, dopo mesi di mediazione con le autorità, in un campo profughi ed entrando clandestinamente in un ghetto in provincia di Foggia, attiguo ai campi di pomodori gestiti dalla Mafia e dal capolarato – una di quelle esperienze che ti inducono a non mangiare mai più in vita tua un pomodoro che non sia a chilometro zero. Quando poi alcuni, pochi cercano di arrivare in Svizzera, l'efficienza leggermente sadica delle istituzioni elvetiche fa sì che a praticamente nessuno venga ad esser concesso il diritto di asilo e che dunque, in omaggio appunto alla convenzione di Dublino, i profughi se ne debbano tornare, nella migliore delle ipotesi, giù in Italia. Fra i personaggi che inducono ottimismo, nei quali Imhoof si imbatte: un profugo della Costa d'Avorio, Akhet Téwendé, che a differenza di molti altri accetta di uscire fuori dal ghetto e di parlare e che è venuto in conferenza stampa a Berlino a raccontare la propria storia con una – almeno alla data di oggi – felice conclusione: desideroso di studiare è stato adottato da una famiglia italiana che gli ha fatto prendere la maturità, iscrivere all'Università e adesso a Parigi a studiare economia. E oggi era presente anche Raffaele Falcone, un sindacalista della CGIL, protagonista per un breve tratto del film, che combatte lo sfruttamento dei migranti da parte dei caporali, invitandoli a opporsi e a parlare. Simpaticamente manicheo e old style è il caro Imhoof, che nel film e in conferenza stampa ha incitato a fare ciascuno il possibile perché venga data accoglienza ai profughi. Vaglielo a spiegare a più di metà dei partiti che si contendono i voti degli elettori da qui a dieci giorni.

(Eldorado). Regia:Markus Imhoof; sceneggiatura: Markus Imhoof; fotografia:Peter Indergand; montaggio: Beatrice Babin, Thomas Bachmann; interpreti: Robert Hunger-Bühler (Markus), Caterina Genta (Giovanna);produzione: Thelma Film, Delemont, zero one film, Berlino durata: 92'.



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