Vent’anni ci sono voluti a Paolo Sorrentino, per tornare nella sua Napoli. È stata la mano di Dio racconta il suo percorso di formazione da adolescente negli anni Ottanta, prima e dopo la perdita dell’innocenza conseguente alla morte dei genitori. Premiato a Venezia, in piena corsa per gli Oscar, Sorrentino ha presentato oggi il film a Napoli, a pochi passi da dove ci conduce la prima sequenza, piena di fascino. Arriverà il 24 novembre in sala per Lucky Red, in 250 copie, prima di debuttare su Netflix il 15 dicembre. C’è moltissimo di vero in questa storia, ha tenuto a precisare incontrando la stampa, in un racconto in cui “la ricerca della verità” è stata una missione primaria, come ha ricordato il giovane protagonista, Filippo Scotti, con “il coraggio di mettere in scena il dolore personale”.
L’uomo in più è stato il primo film del regista napoletano, prima di una collaborazione centrale nella sua carriera, quella con Toni Servillo, qui nei panni del padre. “La vita del papà nel film”, ha dichiarato l’attore, “nella vicenda reale ha avuto un esito tragico, ma nel girarlo ci siamo anche molto divertiti a raccontare certe sue inadeguatezze nel ruolo di padre che finiscono per essere un po’ simpatiche, nella loro cialtroneria. Con una moglie così appassionata agli scherzi, poi, era difficile non rendere questa coppia divertente. È stata la mano di Dio regala delle metafore su miti cittadini come il calcio, la religione, la famiglia propriamente detta. Delle metafore che Napoli è capace di accogliere, rivendicandone la paternità. Il calcio che lascia spazio al cinema, che in quella città entusiasta stava esplodendo, anche grazie ad Antonio Capuano, personaggio anche nel film. Ricordo le visioni in sala, quando ancora si poteva fumare, che innescavano partecipazione e dibattiti”.
Una storia che “era nella mente da molti anni”, come ha sottolineato Sorrentino. “Ho trovato il coraggio di farlo in questo momento, mi sembrava giusto avendo superato il bel traguardo dei 50 anni. Avevo grande voglia di fare un film con Napoli al centro, mai accaduto neanche con L’uomo in più. Mi piaceva girare in città, d’estate, anche come possibilità di svago durante un periodo un duro per tutti come la pandemia. Se ci sono ragioni più profonde non mi piace conoscerle. Ho girato nei luoghi che frequentavo da ragazzo, un piano sotto la casa in cui vivevo, oltre alla scuola e i posti che ho scoperto a 17 anni. Non sono stato guidato da un'idea di Napoli, ma dai miei ricordi. Trovo sia sempre pericoloso mettersi in testa idea una città e perseguirla. Mi sembra troppo programmatico. Sono molto emozionato dal fatto di presentarlo a Napoli, come fosse il mio matrimonio. Qui verrà compreso in tutte le sue sfumature, quindi sarà una prova non facile da affrontare. Per i premi, il film fa sua marcia lenta, si vive alla giornata. Rispetto a sette anni fa, a La grande bellezza, ho imparato a capire come funziona, ho capito che la corsa agli Oscar segue tante variabili che non puoi controllare. Puoi solo fare il lavoro che devi e sperare che tutto si allinei. Un viaggio molto lungo e complicato, un percorso pieno di bei film che concorrono.”
Una storia universale, come conferma l’apprezzamento ottenuto in giro per festival e proiezioni. Unico effetto collaterale, il fatto che “purtroppo spesso al termine del film vengo interrogato da persone che hanno vissuto lutti simili, vicende drammatiche, ma fa parte del gioco. Mi sembra si riconoscano anche all’estero nei sentimenti, che appartengono a tutti. Anche se faticano a credere che possano esserci famiglie così grottesche, e devo faticare a spiegare che è molto credibile, quel mondo c’è stato e ci sarà. Ma le reazioni sono positive, perché la gente ride e piange. Fellini è citato solo perché legato a cose accadute alla mia famiglia, ma il solo riferimento, il nume tutelare del film, è il Massimo Troisi regista. A lui sono debitore per l'atmosfera. Il mio stile ricercato limitava la libertà degli attori, e in questo caso, per metterli a loro agio e poter dare il meglio in termini di verità, ho scelto uno stile semplicissimo. L’ho ammirato tanto in colleghi che così facendo ottenevano risultati meravigliosi. Ho fatto come loro.”
Napoli è tanto criticata, ma sempre “capace di assorbire input provenienti dall’esterno”. Sta vivendo un grande momento creativo, come ricorda Servillo. “Ho la fortuna di avere tre film in sala di tre grandi autori campani, molto diversi per sensibilità. Mi sento molto in debito con questa città, in prima fila nelle arti, non solo dello spettacolo. Non saprei vivere in un’altra parte del mondo. Qualcuno lo definisce terzo mondo? Allora amo profondamente questo terzo mondo.”
Un film personale, come ricorda il regista, “ma a forza di parlarne sempre sta diventando noioso, questo racconto di dolore. È un ottimo modo per risolvere le proprie pene. Lo racconto agli altri, non più a me stesso e questo aiuta, anche se è personale e non so quanto interessi. Mi è mancato presto mio padre, quindi non ho vissuto in casa il momento del conflitto. Forse non a caso ho incontrato Antonio Capuano, per cui il conflitto è una parte decisiva. Mi ha spiegato come sia necessario per fare questo lavoro e stare al mondo. Mi contraddiceva su tutto all’epoca del mio esordio con L’uomo in più, giustamente. Avevo tipiche idee figlie di estemporanea necessità solo estetica, e lui con sapienza infilava il dito nella piaga. Mi ha aiutato a fare un film migliore. Ho cercato sempre persone con cui instaurare un rapporto autentico, che mi dicessero cosa non andava. Anche con Toni Servillo, con cui ho un rapporto basato sulla critica, che per me ha una funzione paterna.”
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