mercoledì 29 agosto 2018

Venezia 75 - Les tombeaux sans noms - Giornate degli autori

Rithy Panh è nato a Phnom Penh, in Cambogia, nel 1964. Aveva appena undici anni quando fu deportato insieme alla famiglia nei campi dei Khmer rossi dove non era piccolo abbastanza per sottrarsi ai lavori forzati. Riuscì miracolosamente a fuggire dopo quattro anni e raggiunse il campo profughi a Mairut, in Thailandia. Da lì il viaggio in Francia che diventa sua nuova casa, ma il suo spirito e il pensiero restano ancorati a tutti quelli che sono rimasti indietro, ai parenti e agli amici che non scamparono a un genocidio di cui troppo poco ancora si parla.
Per questo la sua produzione è idealmente improntata nelle forme di un faticoso, dolorosissimo viaggio di ritorno. Dopo L'image manquante, che aveva trionfato a Un Certain Regard a Cannes, e dopo Exile, questo Les tombeaux sans noms riporta il discorso al tema delle anime erranti, a tutti quei morti che il regime lasciò semplicemente abbandonati sui cigli delle strade, spesso senza nemmeno la consolazione di una fossa comune nella quale scavare in cerca di un barlume di verità.

Il viaggio di ritorno, questa volta, è quello di un figlio che cerca i corpi dei genitori, dei fratelli, di almeno dieci congiunti che non hanno una tomba su cui piangere al ricordo.
La ricerca è quindi al tempo stesso fisica e spirituale. Fisica perché è un ritorno letterale alla terra e alla polvere. Spirituale perché riconnette in chiave mitica e archetipica il senso di una tradizione per sempre spezzata.
La ricerca delle radici perdute diventa quindi espressione di un percorso di ridefinizione individuale che non può esimersi dal ripercorre le tappe di una storia nazionale intinta nel veleno scuro della tragedia.

Così mentre l'io lirico del documentario si affida a stregoni nella disperata ricerca dei corpi degli estinti che sono sempre troppo lontani, lo sguardo lucido del documentarista, senza mai smarrire la strada di un flusso poetico potente come raramente capita nel nostro cinema sempre più anestetizzato, insegue i racconti dei pochi testimoni dell'orrore, tra comprensibili reticenze e sguardi sperduti negli orizzonti distanti del ricordo.
Testimonianze sempre raccontate all'ombra di alberi possenti, mentre i piedi nudi di chi parla e di chi cerca, sembrano quasi voler toccare quella terra intristita e quelle piante che a tagliarle col coltello ancora sanguinano di rosso.

Les tombeaux sans noms è un film che si guarda con le lacrime negli occhi e la gola a un passo dal sospiro.
Un'opera potente che supera in un sol colpo la dimensione del dramma individuale per farsi espressione di un afflato universale alla giustizia impossibile e alla ricomposizione del Tempo ferito.
Un pamphlet di poesia inesausta in cui la macchina da presa scava il paesaggio in cerca dei silenzi giusti e delle preghiere mormorate.
E poco importa che a scavare nel dolore si trovi alla fine poco più che un simbolo perché quel simbolo ha tutta la forza del pianto che consola e dona allo sguardo quel desiderio di lucidità che fa grande l'autore.
Così alla fine un funerale di sassi può avere un senso anche più di quel cinema cui manca sempre l'immagine più importante e che è nient'altro che un telo steso sul confine della notte a riportare la memoria ad un passato così lontano eppure ancora tanto, forse troppo, vicino.

(Les tombeaux sans noms); Regia: Rithy Panh; sceneggiatura: Rithy Panh, Agnès Sénémaud; fotografia: Rithy Panh, Prum Mésar; montaggio: Rithy Panh; musica: Marc Marder; voce: Randal Douc; produzione: CDP, Anupheap Production, ARTE France, Unité Société et Culture; origine: Francia, Cambogia, 2018; durata: 115'



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