Ci sono tante ragioni – al cinema - per travestirsi: chi lo fa per dare corpo alla propria identità sessuale più profonda, chi, come Jack Lemmon e Tony Curtis, per salvare la pelle, chi, come Dustin Hoffmann o Julie Andrews, per trovare un lavoro, chi, come Roman Polanski o Anthony Perkins, perché sempre più prigionieri di una patologia. Fra le ragioni principali va senz'altro annoverato l'amore, pensiamo ad esempio a Robin Williams in Mrs Doubtfire. E' quanto accade anche nello spigliato film d'esordio della non più giovanissima regista iraniana naturalizzata francese Sou Abadi; un film che in originale s'intitola in modo non particolarmente creativo ossia Cherchez la femme e in italiano – per una volta, una scelta non penosa anzi migliorativa – Due sotto il burqa. I meno giovani sentiranno forse, nella scelta di questo titolo, l'eco di una deliziosa commedia di spionaggio di Ronald Neame, con Glenda Jackson e Walter Matthau intitolata Due sotto il divano (1980). Armand, il protagonista maschile del film di Sou Abadi si traveste, appunto, per amore, per riuscire a incontrare la fidanzata segregata in casa da un fratello - divenuto un fervente seguace di un islamismo fortemente illibertario all'indomani di un soggiorno in Yemen - fingendosi dunque una donna musulmana, a sua volta devota e integralista, tanto da indossare il burqa, di cui al titolo. Il travestimento dà luogo a una serie di episodi a un tempo esilaranti e drammatici (soprattutto allorché il fratello s'innamora, se solo si potesse dir così, a prima vista di Armand en travesti) che la sceneggiatura molto agile restituisce con garbo e senso del ritmo. Dietro questo plot brillante e questo improbabile triangolo amoroso, che poteva dar luogo a sketch un po' volgarotti e scorretti (ma la regista ne resta totalmente alla larga pur andandoci in più di un'occasione giù pesante) il film è capace anche di aprire due discorsi avvincenti e a loro modo originali. Il primo riguarda la trasformazione individuale del protagonista, di gran lunga la figura più interessante di tutta la pellicola. Per calarsi nel personaggio Armand, lui, intellettuale, figlio di rifugiati politici iraniani emigrati a Parigi dopo la presa del potere da parte di Khomeini e totalmente laico, studia approfonditamente il Corano, si fa una cultura teologica musulmana dando credibilità al “personaggio” che ha deciso di interpretare e riuscendo in fondo a tener testa sul piano concettuale e dottrinale al fratello della compagna, non senza interpolare – ed è questo il principale risultato del film sul piano ideologico – alcuni principi del Corano con versi e citazioni tratti da opere letterarie della cultura occidentale, e distillando così una sorta di koinè umanistica che, al termine del film, produce i suoi effetti; una conclusione che, si parva licet, ci ha ricordato il finale dell'Ifigenia in Tauride di Goethe, con Toante, placato, che prende commiato dalla protagonista e da Oreste con un laconico “Lebt wohl”. L'altro aspetto interessante, qua e là virato un po' troppo sul grottesco, è la dialettica intergenerazionale fra Armand e i genitori, ormai rifugiati in Francia da quasi quarant'anni, sempre in prima linea per combattere battaglie di equità e diritti civili, ma a loro volta ancora – soprattutto la madre – attaccati a valori e ideali tradizionali e passatisti (per esempio il matrimonio combinato), tanto che il figlio, fin dalla prima scena, è costretto a nascondere anche ai genitori la propria relazione, facendo così diventare il camuffamento quasi una sua seconda natura. Gli attori sono abbastanza bravi, la regia gioca molto sui primi piani, sui begli occhi bistrati di Félix Moati, che interpreta Armand, e che agli occhi affida molto della sua espressività.
(Cherchez la femme); Regia: Sou Abadi sceneggiatura: Sou Abadi; fotografia: Yves Angelo; montaggio: Virginie Bruant; interpreti: Félix Moati (Armand), Camélia Jordana (Leila), William Lebghil (Mahmoud), Anne Alvaro (Mitra), Miki Majnolovic (Darius); produzione: The Film, Mars Filmsorigine: Francia 2017; durata: 88'.
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