lunedì 27 maggio 2019

Game of thrones (Stagione 8) - Teste di Serie

«Cosa diciamo al dio della morte?»
«Non oggi!»

- dialogo tra Melisandre e Arya Stark

Un'epopea planetaria

Finalmente l'inverno è arrivato. E anche la resa dei conti e, con essa, la fine di un viaggio durato ben otto stagioni: appassionanti, deludenti, travagliate, sorprendenti.
Perché se si vuol conferire un merito indiscutibile a Game of thronesIl trono di spade nella versione italiana, serie-punta di diamante della HBO dal 2011 a oggi – è quello di aver catturato milioni di curiosi e averli trasformati in un esercito di fan accaniti, pronti a dar battaglia a ogni minimo dettaglio fuori fuoco, a cominciare dalle primissime divagazioni che hanno allontanato la trasposizione televisiva dalle sontuose pagine scritte da George R. R. Martin, fino a culminare con un'esagerata – quanto naturale – marea montante emotiva, pronta a sommergere e inghiottire ogni tentativo di lucida analisi in riferimento all'opera stessa. Perché pur sempre di un'opera televisiva si sta parlando, anche se colossale dal punto di vista produttivo e di messa in scena, nonché così ambiziosa da tramutarsi, nel corso degli anni, in un autentico evento di portata globale.

Prima o poi, dunque, tutti i nodi erano destinati a sciogliersi, poiché di moltissimi intrecci siamo stati testimoni e per colpa loro qualcuno è riuscito a cambiare perfino il proprio umore; Game of thrones nasce, dopotutto, come un prodotto esplicitamente a sfondo politico, solo mascherato da epopea fantasy – ben distante dalla poetica del fantasy classico a cui ci ha abituato Il signore degli anelli, solo per citare il migliore -, serie televisiva ormai entrata nell'olimpo della serialità, che ha saputo miscelare con vigore dramma, horror, romanzo di formazione e scimmiottare – ben più di qualche volta – gli elementi cardine della preistorica struttura della più mondana delle soap-opera – il primo episodio della prima stagione non termina forse con la scoperta scandalosa da parte del personaggio che in futuro siederà sull'ambito trono di spade, di due fratelli colti in flagrante nel compimento di un atto incestuoso, e per questo motivo spinto da uno dei due giù da una torre e costretto alla paralisi per il resto della sua esistenza?

Tuttavia il pregio più beneamato dell'intera serie ideata da David Benioff e D. B. Weiss risiede(va) nella sua sincera imprevedibilità e sregolatezza, accompagnate da un monito che poco ha lasciato a speranzosi tentativi di rassicurazione – perché «tutti gli uomini devono morire», o no? -, ma che col passare del tempo e l'alternarsi delle stagioni ha accusato dei momenti di flessione che non solo hanno contribuito ad afflosciare l'ipnotica prepotenza di una sceneggiatura costruita per scioccare, ma hanno altresì in qualche modo tradito quella stessa fiducia che lo spettatore più esigente nutriva nello show più violento e impertinente degli ultimi venti anni di televisione.

L'ultima stagione

Avevamo lasciato la settima stagione ammirando la perfida regina Cersei (Lena Headey) mentre sacrificava tra le fiamme infernali dell'Altofuoco mezza Approdo del Re; ammutoliti e con gli occhi sgranati, rapiti nel bel mezzo della furiosa battaglia dei bastardi; ghignando mentre Arya Stark (Maisie Williams) completava la sua missione da oscuro mietitore e rabbrividendo all'epifania nera di Sansa Stark (Sophie Turner), mentre dava in pasto ai feroci mastini il crudele e folle Ramsay Bolton (Iwan Rheon) e mostrava quanto approfonditamente avesse appreso gli insegnamenti di Lord Baelish (Aidan Gillen); infine, estasiati e impazienti, dopo quel cannibalesco assaggio di resa dei conti tra l'esercito dei morti e i nostri amati “eroi”.

Cosa aspettarsi dall'ottava e ultima stagione? Fiumi in piena di sangue, certo; dipartite eccellenti, come minimo; colpi di scena che solo il più maniacale avrebbe potuto prevedere. Del resto, a questo ci ha abituato – brevi scivoloni a parte - Game of thrones. Il timore maggiore portava a chiedersi come potessero gli sceneggiatori racchiudere e sbrogliare ogni singolo intreccio in appena sei episodi, seppure da un'ora e venti minuti l'uno. C'era la necessità di condurre verso un ideale ricongiungimento Jon Snow (Kit Harington), la regina dei draghi Daenerys Targaryen (Emilia Clarke) e l'ormai sempre lucido e assetato di giustizia Tyrion Lannister (Peter Dinklage) con il resto del comparto di protagonisti, e sono bastati due episodi: narrativamente fluidi e dotati del giusto respiro, introspettivi senza forzare la mano verso cadute di stile, addirittura pregni della giusta dose di mistero e romanticismo.

Solo in seguito si sarebbe lasciato campo aperto al momento più atteso da otto anni a questa parte, ben più atteso dello svelamento finale su chi sarebbe riuscito a sedere sul trono di ferro: la battaglia contro il signore della notte e la sua armata di morti si è rivelata un piccolo capolavoro di regia, un blockbuster da un'ora e venti minuti al vetriolo, glicerina pura per gli amanti dell'epica e i figli mai domi della battaglia al fosso di Helm; oscurità - tanta e avvolgente e famelica - ad ammantare fuoco e luce, tra tempeste di neve, latrati infernali e grida di dolore; e poi il dramma di Sandor Clegane (un monumentale Rory McCann), impietrito dalla paura, lui, il guerriero più insensibile e mordace di Westeros; il coraggio di Arya e la sua risulutiva ambizione, profetizzata da una rapida folata di vento a scompigliare i capelli bianchi e morti di un generale della notte; ma, a conti fatti, di morti eccellenti nemmeno l'ombra, neppure un barlume di quella cinica scrittura desiderata più di quanto i morti viventi desiderano la carne dei vivi. E lì si è adagiata di nuovo Game of thrones, annunciando un gran finale più pragmatico e meno invasivo di quanto il più morboso degli spettatori sperasse, non per questo, certo, meno ponderato, ma pur sempre destinato a vangare un solco tra amanti appagati e altri delusi.

Sconfitta la morte, restava Cersei e quel trono maledetto. Ma in che modo la regina di Approdo del Re avrebbe potuto minacciare la sopravvivenza di un esercito in grado perfino di annientare un'orda indemoniata di morti viventi?
Non ce n'è stato bisogno, perché Bienoff e Weiss hanno trasmutato il dolore, il raccapriccio e la sofferenza – quindi il solo plot-twist a questo punto necessario a dare un senso a otto stagioni di trepidante attesa – dal personaggio-maligno-Cersei al personaggio-ambiguo Daenerys, lasciando la storia nelle mani inerti dei pochi buoni rimasti e negli occhi increduli degli spettatori. Mentre la regina dei draghi radeva al suolo tutta Approdo del Re, giustiziando senza motivo migliaia di innocenti, in molti hanno gridato allo scandalo, mentre altri sono rimasti lì ad ammirare quel flusso ininterrotto di distruzione, ammaliati, Cersei compresa.

L'ultimo, spaventoso – perché finale – episodio ha semplicemente sciolto ogni legaccio che teneva ancora in piedi storia e rispettivi protagonisti. Certo è che, in relazione a quanto visto nell'intera ultima stagione, le scelte di Bienoff e Weiss non sono errate o poco congrue, semmai la naturale prosecuzione di quanto mostratoci: doversa la dipartita di Daenerys, doverosa la “cacciata” di Jon Snow, naturale la partenza di Arya, già prevista la regenza di Sansa a Grande Inverno e più che motivata la scelta di affidare il trono a Bran (Isaac Hempstead-Wright) – del resto era lui l'obiettivo primario del signore della notte, l'unico essere in grado di detenere e amministrare saggezza.

Le ire divampanti dei fan delusi non trovano riscontro se correlate direttamente e unicamente alla sola scelta in merito al trono di Westeros; semmai si potrebbero indirizzare – chi ritenesse opportuno – alla stesura dell'intera ultima stagione e già questo meriterebbe un discorso a parte, maggiormente giustificato. Ma, ancora una volta, alla luce di quanto visto, non si poteva assistere a un finale narrativamente più idoneo.

Altresì, non convincono in certi frangenti le tempistiche con le quali vengono narrati gli eventi. Pare evidente come una sola e ultima stagione, seppur da sei episodi da un'ora e venti minuti l'uno, non siano stati totalmente in grado di innervare il giusto respiro in riferimento alla compenetrazione tra tempo della storia e tempo del racconto. Così, certi passaggi appaiono eccessivamente sbrigativi o vien da sé che si finisca con l'abusare di strutture temporali ellittiche: vengono gestite con superficialità alcuni avvenimenti, su tutte la cattura e la fuga di Jamie Lannister (Nikolaj Coster-Waldau) dall'avamposto dei buoni e l'ormai epocale esplosione di rabbia di Daenerys, un attimo prima della distruzione di Approdo del Re; infine, gli ultimi due episodi risentono in maniera generale di una percettibile, frettolosa e scarna scrittura, tenuta in piedi, bisogna ribadirlo, da una regia davvero sopra le righe – dopo la battaglia contro l'armata di morti, va menzionata la lunga sequenza finale della distruzione di Approdo del Re, affogata in un mare di fuoco, grida lancinanti e primi piani immersivi quasi ossessionanti.

Non esiste nessun finale in grado di soddisfare tutti, figuriamoci per Game of thrones, che ha da sempre diviso i propri sostenitori, perchè abituati e desiderosi di essere scioccati, perché affamati di giustizia o, molto più semplicemente, di una grande storia che rendesse molto più vera e viscerale la violenza e i giochi politici, più di quanto siamo abituati o portati ad assorbire.
Forse una chiusura così serve per infondere quel briciolo di speranza che rende umani anche una regina assassina in fuga e ancora innamorata di un amore impossibile, una madre dei draghi corrosa dalla mancanza di affetto da parte della sua gente e tutti quei figli reietti del caos e del destino, che mai troveranno pace in vita loro, se non relegati ai confini del mondo. Alla fine, non resta che affidarsi alla saggezza di un animo buono e innocente, alla speranza di una generazione futura; alle pagine di un libro e non all'acciaio delle spade.
Del resto, dopo il più rigido degli inverni, arriva sempre la primavera.

VOTO ALL'ULTIMA STAGIONE: 3,5/5
VOTO ALL'INTERA SERIE: 4/5

(Game of thrones); genere: fantasy, drammatico, horror, avventura; showrunner: David Benioff, D.B. Weiss, George R. R. Martin (soggetto); stagioni: 8 (conclusa); episodi ottava stagione: 6; interpreti: Kit Harington, Emilia Clarke, Peter Dinklage, Maisie Williams, Sophie Turner, Lena Headey, Nikolaj Coster-Waldau, John Bradley, Iain Glen, Alfie Allen, Rory McCann, Carice van Houten, Jerome Flynn, Conleth Hill, Kristofer Hivju, Gwendoline Christie, Jacob Anderson, Nathalie Emmanuel; produzione: Television 360, Grok! Television, Generator Entertainment, Startling Television, Bighead Littlehead; network: HBO (U.S.A., 14 aprile-19 maggio 2019), Sky Atlantic (Italia, 22 aprile-27 maggio 2019); origine: U.S.A., 2019; durata: 80' per episodio; episodio cult ottava stagione: 8x03 - The long night (8x03 - La lunga notte); 8x05 - The bells (8x05 - Le campane)



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