Io, Antonio, e Mazzino lo sa bene, Olivier Assayas l'ho sempre amato molto. A lui e ai suoi film. Più che molto, moltissimo. Désordre, Les destinées sentimentales con le campane che suonano e annunciano la guerra, L'eau froide e la festa nel casolare con Virginie Ledoyen che balla Leonard Cohen: «Ho iniziato a volerti io che non ho desideri, ho iniziato a chiedere di te io che non ho alcun bisogno». E poi sempre Virginie che si fa la doccia in un fine agosto, oppure Maggie Cheung che in Irma Vep veste i panni di Musidora e che durante una cena arrossisce quando Bulle Ogier le dice che Nathalie Richard è lesbica e se la vuole scopare, mentre nella stanza a fianco parte la cover de La Ballata di Bonnie e Clyde. Intanto Jean Pierre Leaud delira, immaginando quella che sarà la scena più bella della storia del cinema, gli ultimi tre minuti di Irma Vep, e Lou Castel si addormenta vedendola in sala. E poi mille altre sequenze, il documentario su Hou Hsiao-Hsien, Clean, la bellissima ragazzina identica ma proprio identica a un'amica bellissima anche lei in Après mai, e il suo amico che parte per l'India, perché non è qui il nostro posto.
Personal Shopper ha tantissimo dei lavori di Asssayas, e ha tantissimo di Irma Vep: ha un'attrice icona totalmente decontestualizzata, ha una scena in albergo che lascia aperte mille interpretazioni, ha una protagonista che parla una lingua diversa da quella del luogo in cui sta vivendo. Perché è di questo che parla Assayas, ed è di questo che parla Personal Shopper, racconta cioè di persone che vivono situazioni che non appartengono a loro. O almeno io vorrei che parlasse di questo, perché questa è la situazione che vivo io, Antonio. Parla cioè di noi che siamo mossi e di noi che proviamo a muoverci, narra di morti che transitano nel mondo dei vivi e di vivi che fanno sparire quello che non gli appartiene, e parla di zombie che cercano di comunicare ai morti.
Mazzino legge, legge di questa passione e non sa bene come intervenire. E soprattutto non sa se sia giusto cambiare discorso; però è a questo serve essere in tanti, a non lasciare gli uni fossilizzarsi nel singolo discorso. E quindi, nonostante la mia passione e amore, non può non farlo, a cambiare discorso, perché è sorpreso da tutto quello che ho scritto, e che peraltro dice di condividere. Ma secondo Mazzino manca un aspetto centrale del film, un aspetto che ancora una volta si riferisce in pieno alla nostra esistenza: lui, in Personal Shopper, ci ha visto soprattutto l'attesa di un segno, cioè, l'attesa di qualcosa che possa dare senso a ciò che non è più per andare incontro a ciò che non è ancora.
E prova a spiegarsi. Secondo Mazzino, Maureen (Kristen Stewart) è persa nel suo presente, tra vita e morte, passato e futuro, tra ciò che lei è e ciò che lei vorrebbe essere. E quel suo essere persa, disorientata, si traduce nell'attesa di un segnale. In questi giorni Mazzino ha visto anche Hidden Figures (Il diritto di contare) e Loving. Due storie nelle quali le protagoniste femminili spingono affinché la loro realtà cambi. Sono afroamericane e vivono in un'epoca in cui è proibito amare, desiderare, avere ambizioni, seguire il proprio talento. Anche loro, perciò, attendono un segnale, si muovono tra qualcosa che sperano non sia più (la condizione di oppresse) e qualcosa che non è ancora (la conquista dei diritti). Sono delle pioniere che cambieranno la vita propria e quella delle altre e degli altri. Non possono sapere, però, quando accadrà e se accadrà. Per certi versi, dunque, sono nella stessa condizione di Maureen che, a sua volta, è alle prese col soprannaturale, con un fantasma, ma pure con le proprie ambizioni, amori e desideri. In quello spettro e nella pretesa che si palesi c'è l'attesa della vita, perché alla fine è di questo che si tratta: porsi di fronte all'accadere, rincorrendo un senso per contrastare o abbracciare l'ignoto. Una rincorsa che proseguirà altrove (che lo spettro lasci un segno non è così importante e definitivo), perché non si finisce mai di attendere un segno, il senso e la contingenza sono là sempre intorno a noi.
Aspettare qualcosa che ci permetta di cambiare la nostra posizione, perché quello che viviamo non è quello che vorremmo vivere. Dare un senso della nostra presenza in questo luogo, che non è tutta la Terra, ma non è nemmeno solo un angolo discreto, dove se sprechiamo il tempo lo sprechiamo ovunque. Avremo altri muri, avremo altri mari, o almeno speriamo di averli. Vivremo in altri mondi, e se i segni non ce li daranno gli altri, saremo noi (“sono forse io” dice Kristen quando cerca la risposta a tutte le domande) a dare questi segni, a compiere questi movimenti.
Io, Antonio, amo Assayas perché mi porta sempre fuori da dove sono. Mi fa vestire vestiti non miei. Così come di vestiti non suoi si veste Kristen quando, da sola, finalmente viene!
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