Ancora fasciata dall’abito del lutto, Jackie tenta nervosamente di sfilarsi la fede dall’anulare, ma il matrimonio che l’ha consegnata alla gloria è ormai parte ineliminabile di lei. L’immagine riflessa nello specchio la scruta: chi è la vera Jackie, la figura corporea o l’impalpabile idolo? Probabilmente, non è casuale che la macchina da presa esili off screen la donna in carne e ossa per dedicare il campo al solo simulacro: e se quest’ultimo fosse l’unica realtà esistente?
Il mese scorso, debuttava al Gobetti di Torino Edith, il play di Chiara Cardea ed Elena Serra sulle due Bouvier, zia e cugina della signora Kennedy, che bandirono se stesse dal mondo e dalla mondanità per recludersi nella marcescente dimora di Grey Gardens, in riva all’Atlantico. Ora, giunge nelle sale cinematografiche italiane la pellicola che, inondando d’emozione il Lido di Venezia, è valsa a Noah Oppenheim un non così meritato premio per la sceneggiatura e che impressiona l’isolamento della stessa Jacqueline, compiute le esequie del consorte, nella sontuosa magione del Massachusetts dove fu ricevuto il giornalista di Life Theodore White (mai chiamato per nome nel film), per l’intervista che contribuì, a suo modo, all’edificazione del mito di JFK. Girato per lo più in Francia, Jackie, l’opera che avrebbe dovuto essere diretta da Darren Aronofsky e interpretata da Rachel Weisz, è divenuto il primo lungometraggio anglofono di Pablo Larraín che, rotto all’esplorazione del turpe passato cileno, si parli dell’era Pinochet o dei tempi di Videla, qui si cala invece in quel novembre del 1963 che rimane uno dei paragrafi più contorti della storia recente. Non con Reisz, ma con Natalie Portman che, inguantata nei costumi della magistrale Madeline Fontaine, rende una prova di stucchevole mimetismo.
Se, in Post mortem, nel cadavere di Salvador Allende condotto all’obitorio dove lavora il protagonista, s’incorporano le illusioni spirate di un Cile diverso, con il John Fitzgerald abbattuto a Dallas dai colpi sparati da Lee Oswald declina il sogno di un Paese migliore, più moderno, più giusto (?), insomma le molte speranze che Kennedy aveva alimentato. Una sigaretta dopo l’altra, Jacqueline racconta e, a suon di flashback, un frammento alla volta, il quadro si compone. Insieme a un sogno nazionale, si è infranta anche la fiaba personale della First Lady: la realtà bruta e disarmante è irrotta là dove la finzione era forma e materia dell’esistenza, madre di miraggi a cui era ed è bello credere, compresa la Fata Morgana di una felicità coniugale non così limpida. Bouvier, che aveva messo in scena addirittura la Casa Bianca in un programma fatto per incollare i telespettatori statunitensi al piccolo schermo, si è resa subito conto che il feticcio di Camelot che lei aveva concorso a creare, con in mente più il musical di Lerner & Loewe adorato da Kennedy che l’antica saga europea, non dovrà essere intaccato. Perché, come John Ford e L’uomo che uccise Liberty Valance insegnano (“If the legend becomes fact, print the legend!”), quando la cruda realtà rischia di sopraffare la sua mistificazione, quest’ultima va preservata: White è avvisato, bisogna stampare la leggenda. Jackie esige per “Jack” funerali degni di Abraham Lincoln, perché anche la mondovisione vuole la sua parte, e, quando i giornali cominciano a mettere in circolazione voci malevole, occorre porre rimedio con una strategia comunicativa mirata. Se Neruda stabiliva che, in fondo, per assurgere alla giusta dignità pubblica (e ontologica), ciascuno necessita di un nemico, e i poeti se lo creano meglio di altri, Jackie replica che elemento trascendentale di un’esistenza, soprattutto se speciale, è la sua rappresentazione culturale. O, meglio, mediatica. E il potere dei media di manipolare le coscienze promanando realtà più vere del vero è un tema frequente in Larraín (Tony Manero, No – I giorni dell’arcobaleno).
Si plaude, in Jackie, all’intelligente abilità con cui il direttore della fotografia Stéphane Fontaine sa intonare le sue scelte al mood del momento narrato: un respiro da mélo di William Wyler per il presente, con una profondità di campo che visita i fastosi interni della tenuta senza trascurare i volti e la loro pregnanza; macchina a mano, panoramiche e inquadrature slabbrate nei segmenti che esprimono la concitazione successiva alla tragedia; addirittura un ovattato bianco e nero nelle sequenze televisive. Purtroppo, a penalizzare un film registicamente molto accorto (Larraín non è un pivellino, e si sa), è un copione che, se da un lato ha il merito di non abbandonarsi mai all’agiografia (Jacqueline ne esce come una donna boriosa e piuttosto antipatica), dall’altro suona troppo teso a spiegare se stesso, le chiavi di lettura adottate, la mission poetica. E, trascinato da una verbosità eccessivamente letteraria, incappa qua e là nella (cattiva) retorica. Altrove, Larraín ha dimostrato la capacità di lanciare messaggi altrettanto significativi con meno e migliori parole. Piuttosto banali, poi, e trite, le domande che Jackie affida al sacerdote, impersonato, ovviamente bene, da John Hurt, sulla bontà dell’Onnipotente: si può definire giusto un Dio che le ha sottratto due figli e un compagno giovane e vincente e che, a monte, permette simili travagli? L’impressione è che, sul silenzio di Dio, il cinema si sia già pronunciato in maniera insuperabile attraverso Ingmar Bergman. Anche la recente impresa scorsesiana, dopo tutto…
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