sabato 28 agosto 2021

Il DNA spirituale di una famiglia in lutto: incontro con Maïwenn

Cosa significa venire da un paese? Una domanda che si pone, mettendola al centro del suo nuovo film, come regista oltre che come interprete, Maïwenn. Premiata a Cannes con Polisse e Mon Roi, l'artista francese presenta su Sky Cinema, in programmazione anche on demand, DNA - Le radici dell'amore, un intenso dramma con non poca ironia, in cui è anche interprete insieme a Fanny Ardant e Louis Garrel, Alain Françon e Marine Vacth.

La scomparsa dell’amato nonno scatena una tempesta familiare e provoca nella nipote Neige una profonda crisi di identità che la spinge a voler scoprire le sue radici culturali e familiari: il primo passo sarà conoscere il proprio DNA.

Abbiamo incontrato via zoom la regista.

Qual è stato il punto di partenza per DNA?

Avevo voglia di parlare di molte cose, soggetti universali che nel corso della vita ci riguardano tutti, da cui rialzarsi più forti e differenti. Questo film racconta l’elaborazione di un lutto. Volevo poi raccontare una storia che combattesse il razzismo, da cui si uscisse dicendosi come siamo tutti fratelli, indipendentemente da dove veniamo. Non c’è motivo per non capirci l’un l’altro. Il mio personaggio è ossessionato dal suo DNA, diciamo spirituale. Ci si può sentire a casa anche in un paese che non ritroviamo nelle nostre analisi. Ci sono i geni che ci trasmettiamo di generazione in generazione, ma c’è anche un DNA mentale, forse anche più importante di quello scientifico.

La famiglia allargata che racconta mescola varie generazioni.

In un film sul lutto del patriarca era obbligatorio. Perché questo lutto è così complicato, perché la famiglia di Neige non le dà tutto l’amore e la spiritualità che cerca. È una famiglia esplosa e disfunzionale e quando si viene colpiti da un lutto si comunica ancora con maggiore difficoltà, ci si ama male. Lei vive il suo lutto in maniera molto solitaria.

È un film corale, non è la prima volta per lei. Cosa ama in questo tipo di film, con molti personaggi?

Non mi pongo questo genere di domande, quando scrivo o giro. Amo il fatto che tutti i personaggi esistano. Non mi piace quando qualcuno esiste solo per farne esistere un altro. Ognuno deve avere la sua storia, la sua lotta e le sue nevrosi. Cerco di dare spessore anche a personaggi con poche scene. Ho scritto pensando ai miei attori, soprattutto Louis Garrel, con cui vorrei girare sempre. Lo trovo un genio. Poi ho pensato sicuramente molto a Fanny Ardant, con cui volevo lavorare da anni. Grazie a DNA abbiamo avuto l’occasione giusta, ed è stato intenso. Scrivere con in testa un attore mi aiuta a delineare il personaggio e a costruirgli intorno le scene, ma se poi rifiutano non sono intercambiabili. 

Lei è nota per dare molta libertà agli attori. Qual è il suo metodo di lavoro?

Non credo di avere un metodo particolare, gli attori potrebbero dirlo meglio di me. Ascolto tutto, questo sì. Per me tutto passa per l’orecchio, vedo se sono a proprio agio con la situazione, con la sceneggiatura. Cerco di non suscitare troppe elucubrazioni nella loro testa per far esistere la scena. Se sento che sono lontani dalla dinamica che stiamo ricreando, non serve a niente forzarli, si sentirebbe. Per far incarnare a un attore un personaggio, un’emozione, gli chiedo costantemente se gli si adatta situazione, come i costumi. Gli chiedo come la sta vivendo. C’è chi mi dice che va tutto bene, ma sento che non si pone realmente il problema, non si fa veramente le giuste domande. Questo crea dei disfunzionamenti sul set. È molto importante essere veramente onesti con me. È come se domandassi di viverlo, ma non in un documentario. Non è questo, non attendo che succedano delle cose, c’è tutta un squadra che crea artigianalmente una situazione. Cerchiamo di ricreare semplicemente un momento sospeso, di grazia, ma che non sia la vita, ma una rielaborazione necessaria a renderla cinematografica.

Una clip in esclusiva di DNA - Le radici dell'amore



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