martedì 24 agosto 2021

Aspettando Dune: la versione di David Lynch (e dei De Laurentiis)

Il progetto visionario sognato, progettato, accarezzato da Alejandro Jodorowsky, lo sappiamo e lo abbiamo visto, non vide mai la luce. Se sono tantissimi quelli che avrebbero voluto invece vedere realizzato quel film oramai ammantato da un'aura mitica, sono molti, forse, quelli che invece avrebbero fatto volentieri a meno di vedere sullo schermo il Dune di David Lynch: o forse sarebbe meglio dire "il Dune di Raffaella e Dino De Laurentiis".
Perché, come già era stato qualche anno prima per quello di Jororowsky, anche l'adattamento del romanzo di Frank Herbert che arrivò nei cinema nel 1984 porta addosso, evidenti, le cicatrici e le menomazioni figlie del conflitto tra la visione artistica di un regista non comune, e quella inevec legata alla industriale ed economica dei produttori: i De Laurentiis, appunto, ma anche la Universal.
E non è questa l'unica coincidenza tra il il film realizzato di Lynch e quello rimasto sulla carta di Jodorowsky.

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Fallito il tentativo del regista cileno, Dino De Laurentiis si assicurò i diritti per l'adattamento di "Dune", iniziando a lavorare al progetto tra il '78 e il '79 assieme allo stesso Herbert, che stese una prima sceneggiatura, e a Ridley Scott, che a sua volta aveva collaborato con Dan O'Bannon e H.R. Giger (altri due reduci della missione fallita di Jororowsky) in Alien.
Presto però Scott, scosso anche dalla morte per infarto del fratello Frank, decise di abbandonare il film, spaventato dalla mole di lavoro che avrebbe comportato, preferendo dedicarsi a Blade Runner.
E fu nel 1981 che i De Laurentiis, dopo che Raffaella vide al cinema The Elephant Man, si rivolsero a Lynch, allora 35enne.
Come Jodorowsky, anche Lynch non aveva mai letto il libro di Herbert, e non ne conosceva la storia: eppure, accettò l'offerta, impegnandosi anche in prima persona nella stesura del copione. Anzi, in numerose stesure.
Per dimostrarsi all'altezza di quanto sognato da Jodorowsky, anche il Dune di Lynch potè contare su un cast e una troupe di alto livello, a partire dalla fotografia di Freddie Francis (lo stesso di The Elephant Man), dando però l'impressione di rimanere sempre in qualche modo un passo indietro: basti pensare a Sting nel ruolo di Feyd-Rautha, che Jodorowsky avrebbe voluto affidare a Mick Jagger, o ai Toto al posto dei Pink Floyd (e però Brian Eno batte i Magma).

Se si narra che il Dune di Jodorowsky sarebbe dovuto, o avrebbe potuto, durare anche più di dieci ore, il primo cut del Dune di Lynch superava le quattro: un minutaggio inaccettabile per la Universale e per i De Laurentiis, che non accettarono nemmeno Lynch arrivasse alle tre ore che aveva giudicato essere la durata ottimale per il suo film.
Fu cosìche, contratto alla mano, i De Laurentiis costrinsero Lynch a numerosi compromessi, convincendolo a girare scene aggiuntive, a inserire voci narranti a palate, e a mettere mano al montaggio per giungere al risultato che tutti conosciamo, quello aperto dall'ipnotico monologo recitato in primissimo piano da una bellissima Virginia Madsen, poi sostanzialmene assente dal resto di Dune.
Che però era e rimane un film meno brutto in senso assoluto di quanto spesso lo si dipinga; ma che, specialmente nella sua seconda parte, risente innegabilmente e chiaramente degli interventi drastici della produzione che lo ha voluto sintetizzare e semplificare oltre misura.

Mettiamola così: possiamo anche dire che, nel suo complesso, il Dune di Lynch è un pasticcio. D'altronde, lo dice anche lui, David Lynch, che non è il film che avrebbe voluto, e che non corrisponde - in pieno, almeno - alla sua visione. "Dico sempre che Dune rappresenta un'enorme, gigantesca tristezza nella mia vita", ha detto Lynch la scorsa estate. "Non avevo il montaggio finale su quel film. Non avevo il controllo creativo totale, e il film non è il film che avrei fatto se avessi avuto quel controllo finale."
Ciò nonostante, e nonostante l'estetica baroc-noir e fanta-gothic voluta dal regista e certi effetti di Carlo Rambaldi sconfinino, allo sguardo contemporaneo, in territori assai prossimi a quelli dello scatenato camp di Flash Gordon (che è pure quello un prodotto di De Laurentiis), è innegabile che per tutto il Dune di Lynch si respiri quell'aria vagamente malsana e carica di disagio e inquietudini che sono alla base del cinema lycnhiano, dove per cinema intendo anche le tre stagioni di Twin Peaks (non è un caso che, a cominciare da Kyle McLachlan, molti degli interpreti di Dune sian finiti nella serie e dei film successivi di Lynch).
Ammetto che a parlare, in me, che ho visto Dune a 10 anni e che negli anni l'ho più e più volte rivisto nel nome di una passione perversa comune a me e a mio fratello minore, possa essere anche la nostalgia. Ma le visioni di Paul, la deformità e la perversione del barone Harkonnen, i navigatori della Gilda, la caratterizzazione bizzarra e onirica di molti dei personaggi, e tutta una lunga, innumerevole serie di dettagli e sfumature, tradiscono costantemente il fatto che ad orchestrare Dune c'era la mano di un regista coraggioso, ambizioso e visionario, desideroso di provocare il suo spettatore, di metterlo di fronte al rimosso, all'inconscio, al lato oscuro del desiderio e dello sguardo.

Ci chiediamo oggi, a ragione, come sarebbe stato il Dune di Jodorowsky. Ci si può chiedere, con altrettanta ragione, come sarebbe stato il Dune di Lynch senza l'intervento a gamba tesa della produzione. Perché sempre lì si torna: alla polarità tra visione artistica e visione economica.
Chissà se saranno queste le stesse domande che ci faremo dopo il Dune di Villeneuve, o se scopriremo che il canadese è riuscito lì dove i colleghi, in un modo o nell'altro, han dovuto rinunciare. Per scoprirlo dovremo attendere il 3 settembre, quando il film del canadese verrà proiettato in prima mondiale, fuori concorso al Festival di Venezia 2021, per poi debuttare nelle sale di tutta italia il 16 dello stesso mese.



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