giovedì 11 agosto 2022

Vedere un film è un'esperienza extra-corporea: il critico Roger Ebert aveva ragione

Alzi la mano chi sente di condividere al 100% queste parole:

"Quando un film funziona davvero, possiamo vivere un'esperienza extracorporea.
Non c'è niente di paranormale. Siamo così rapiti dalla storia che perdiamo consapevolezza di dove sia parcheggiata la nostra macchina, di dove andremo a cena, di cosa faremo domani. L'unica cosa che ci importa è sapere cosa sta per succedere alle persone di quella storia.
Quando questo accade, l'empatia che si crea con i personaggi sullo schermo ha un effetto su di noi più netto, più incisivo e più potente di qualunque altra forma d'arte. E io sono uno a cui piace leggere, ma penso che i film ci tocchino più in profondità di ogni altra forma d'arte. I buoni film, i grandi film."

A esprimersi così in una intervista del 1996 con Charlie Rose è stato un uomo di grande intelletto che in vita ha fatto il critico cinematografico, possibilmente il migliore, meritevole persino di un Premio Pulitzer nel 1975.
Roger Ebert, nato nel 1942 e morto nel 2013, ha scritto recensioni di film per il Chicago Sun-Times coprendo un arco di tempo di 46 anni. Il suo stile era elegante, onesto, acuto e raramente spietato. Il suo giudizio si basava sulla sostanza tecnica, etica ed estetica di un opera, aspetti che ne compongono la dote artistica, come ogni buona critica cinematografica dovrebbe tentare di valutare, ma Ebert andava più lontano allargandosi spesso a considerazioni più generali e raccontando aneddoti personali, se attinenti al discorso.

A volte le recensioni di Roger Ebert andavano apertamente, e con una certa serenità, in contraddizione con il giudizio in stellette. Non sempre le due cose sembravano combaciare per lo stesso film, ma era lui stesso il primo a lasciare intendere che la critica non fosse una scienza esatta. Il valore di un suo scritto trascendeva la mera opinione sull'opera ed entrava in sintonia con il lettore come un flusso di coscienza di una persona intelligente che aveva gusto, buon senso, logica e una sconfinata passione per il cinema.
Il giornalista non mancava infatti di sottolineare quanto fosse relativo applicare stellette o pollici in su, per esprimere il gradimento di un film, perché per rispondere a qualcuno che vuole sapere se un film è buono, bisogna farlo in prospettiva.
Nel 2004 scriveva:

"Quando chiedete a un amico se Hellboy è un buon film, non lo chiedete in relazione a Mystic River. Lo chiedete comparandolo con The Punisher. E la mia risposta sarebbe questa: in una scala da 1 a 4, se Superman vale 4, Hellboy è 3 e The Punisher è 2. Allo stesso modo, se American Beauty riceve 4 stelle, allora Il delitto Fitzgerald ne prende 2."

Sebbene oggi sia difficile definirne i confini dell'identità professionale, il critico cinematografico svolge un lavoro non certo meno importante in questo pressante decennio 2020. Annaspiamo in un oceano di contenuti audiovisivi e testuali, con la soglia dell'attenzione ridotta ai minimi termini mentre come squali influencer di ogni sorta ci attaccano su ogni fronte, e un buon critico può essere il salvagente al quale aggrapparsi per avere conforto e confronto, profondità di pensiero e passione.

Per tornare all'inizio, l'esperienza "extra-corporea" di cui parla Ebert è reale. L'immersione in una storia proiettata sul grande schermo ha il potere di sospendere la realtà alla quale apparteniamo, di mettere in pausa la vita con tutti i suoi tramonti e le sue croci, di farci viaggiare altrove insieme al destino di personaggi che per un paio d'ore sono la nostra sola e unica priorità. Ma questo accade solo se lo schermo è grande, la sala è buia, l'attenzione è totale e i dispositivi che ci vogliono sempre reperibili sono spenti.
Già, il Cinema.



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