mercoledì 3 agosto 2022

Sposa in rosso, una commedia dei sentimenti ma non sentimentale. Incontro con il regista Gianni Costantino

Si può cambiare la vita a quarant’anni? Un interrogativo su cui ruota Sposa in rosso, la commedia su un coppia che trova quasi per caso l’amore mentre insegue qualche certezza più prosaica nella vita, come un tenore economico più soddisfacente. Prodotto da Fenix Entertainment e Vision Distribution, arriva in sala e nelle arene dal 4 agosto per Adler Entertainment diretto da Gianni Costantino, già regista di Tuttapposto, è stato per anni un apprezzato casting director, tanto che si schernisce dichiarando, in un’intervista a Comingsoon.it: “mi sono detto subito: il film lo posso pure sbagliare, ma il cast no”.

La risposta è un gruppo di attori assortiti con cura, composto dai due protagonisti, Sarah Felberbaum (Roberta) e Eduardo Noriega (Leòn), oltre a Massimo Ghini, Anna Galiena, Cristina Donadio, Dino Abbrescia, Maurizio Marchetti e Roberta Giarrusso. La storia è quella di due quarantenni precari in cerca di riscatto, che inscenano un matrimonio finto in Puglia per intascare i soldi delle buste che gli invitati regalano agli sposi. I complici sono il trasformista Giorgio (Massimo Ghini), amico mentore di Leòn, e l’anticonformista Giada (Cristina Donadio), zia di Roberta. Gli ostacoli sono i familiari della sposa. La madre asfissiante Lucrezia (Anna Galiena), il fratello paranoico Sauro (Dino Abbrescia) e il padre fuori di testa Alberto (Maurizio Marchetti). In una girandola di imprevisti non sarà facile per i protagonisti prendersi la rivincita che meritano.

“È una grande orchestra”, la definisce il regista. “Ho avuto Monicelli come maestro nella scuola di Ermanno Olmi, Ipotesi cinema, negli anni ’90. Lui disse, anche una piccola parola o una faccia deve essere giusta nell’interazione con il protagonista. L’immagine parla molto di più della parola, anche un piccolo ruolo ha una sua funzione. Volevo un’italiana e uno straniero e ho scelto Eduardo Noriega per quello. Mi ero innamorato di Apri gli occhi e l’ho poi seguito negli anni.

Sposa in rosso racconta è una commedia romantica con problemi economici sulla generazione dei quarantenni.

Un tema a me molto caro sono i rapporti generazionali, quelli fra genitori e figli. In Tuttapposto al centro c’era uno studente universitario interpretato da Roberto Lipari, in Sposa in rosso ho guardato più ai quarantenni. Nel cinema italiano si parla più di figli adolescenti o ventenni, non si affronta mai una sorta di ricatto dei genitori nei confronti dei figli: non vogliono abdicare, dare pienamente fiducia, anche se ti amano non lo fanno. Difficilmente dal punto di vista economico sono pronti, per esempio, ad assegnarti una casa, si limitano al massimo a un “poi si vedrà”. Ero circondato da amici con cui mi confrontavo e questa tematica mi stava a cuore. Il film è una commedia dei sentimenti, ma di sentimentale c’è ben poco. La vera storia d’amore, se ci sarà, inizia quando il film finisce. Indebolisce non avere certezze economiche su cui basare la pianificazione del futuro. Si riverbera sull’aspetto sentimentale ma anche identitario. Ho calato i due protagonisti in una situazione da esuli, per questo li ho fatti vivere in una terra che non è loro, Malta, prendendo spunto dall’epica. Una babele di lingue, un po’ araba e un po’ siciliana o inglese. Mi interessava quindi raccontare l’unione tra uno spagnolo e un’italiana in un territorio neutrale. Un finto matrimonio crea un’onda anomala che si ripercuote su tutti i membri della famiglia. Ho cercato di fare un film di intrattenimento popolare, innescando però delle riflessioni.

La verità è sopravalutata, è la menzogna che è la vita. Così dice un personaggio del film. Tutti recitiamo, come nel cinema, indossiamo maschere fino a che siamo obbligati a toglierle, per ragioni esterne, magari per l’amore.

Basta guardare la politica di questi giorni: in Italia si recita a soggetto, la realtà si inventa e poi diventa vera. Con un capocomico che decide che bisogna dire una certa cosa. Molte volte la realtà e la finzione si mescolano a tal punto che il camuffamento diventa un filtro per non vedere bene la realtà. Allora gli altri interpreti, oltre alla coppia protagonista, dovevano camuffarsi. L’ho fatto con Massimo Ghini o con Cristina Donadio. 

Litigare diventa un modo per volersi bene, per dimostrare attenzione nei conforti degli altri, una maniera molto italiana di fare gruppo.

Un modo di esternare gli affetti. Quando si urla in famiglia, è un momento di disturbo apparente, ma vuol dire che c’è qualcuno che ha un sommovimento interiore di affetto, di amore. Se invece c’è silenzio è dato per scontato che è già tutto finito. Ho voluto una famiglia pugliese, con Anna Galiena e Roberta Giarrusso che hanno studiato quella calata e un irrefrenabile barese come Dino Abbrescia. Ci sono alcune radici del territorio che sono più vere e nei momenti di litigio tutto viene fuori. Litigare è il nostro modo di volerci bene, è la verità. La discussione porta alla vita.



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