giovedì 29 dicembre 2016

Il Grande Gigante Gentile

Procura una sorta di imbarazzo malinconico vedere l'ultimo film di Spielberg. Per qualcosa di invecchiato, di volutamente invecchiato. Ma soprattutto, e purtroppo, anche di malamente invecchiato (e non per il recupero pur efficace di un retrogusto old style, grazie a innovative tecniche di rappresentazione del fantastico).
L'incipit de Il Grande Gigante Gentile conserva il fascino dell'inconfondibile macchina immaginativa e poetica spielberghiana che ha incantato generazioni di spettatori: nella falcata del gigante, sghemba e cadenzata come una danza, mentre attraversa le vie di una Londra notturna senza tempo, animato impero delle luci magrittiano; nei suoi occhi vecchissimi e liquorosi sempre a un passo dalla commozione; nella dimensione di casa di bambola dell'orfanotrofio, in cui vediamo muoversi, come in un'operazione a cuore aperto sulle proprie emozioni, la piccola, volitiva Sophie.
È in questi momenti, e poi nel tentativo del gigante di riportarla a casa, che il regista americano restituisce, facendolo proprio e trasformandolo in eloquente movimento cinematografico, lo spirito più profondo del racconto fantastico di Dahl.
Brave Sophie! Coraggiosa Sophie! Mentre il GGG scandisce queste parole sembra di sentirlo, uno dei registi più amati della storia del cinema, rivolgersi al suo pubblico eletto. A quei bambini, passati e presenti, uno per uno, qualunque difficoltà stiano affrontando.
Il meccanismo magico tuttavia s'inceppa quasi subito quando, alla dinamicità visiva, fatta soprattutto di variazioni e contrapposizioni tra il molto piccolo e il molto grande messo a confronto durante il viaggio di ritorno dall'Inghilterra alla terra dei giganti, si sostituisce una modalità di narrazione, di certo aderente all'originario dialogo letterario e ai deliziosi calembour linguistici, che tuttavia sembra limitare il potenziale cinematico del grande regista.
Persino nel momento potenzialmente più bello della storia, quello della caccia ai sogni attorno all'albero e della scoperta di quello di Sophie, la rappresentazione della dimensione onirica rimane impigliata nello stereotipo dell'inseguimento del fuoco fatuo limitandosi, forse per estremo rispetto del testo, a non elaborare ulteriormente una tale trovata narrativa. A farne le spese è la fluidità interna al racconto per il grande schermo: l'albero dei sogni resta una parte a sé della narrazione, come anche l'etichettatura dei barattoli e il fantasma del piccolo predecessore di Sophie. Compartimenti stagni che non comunicano tra loro. Proprio nella più fantasmagorica delle storie che si ritrova tra le mani, il nostro sembra quasi ingenuamente tradito da una forse troppo fedele traduzione-trasposizione dal linguaggio letterario a quello cinematografico.
Eppure, la storia dell'orfanella Sophie rapita dal GGG per averlo visto armeggiare con i sogni del mondo - nell'immaginazione, la più diretta fuga dalla realtà per mettersi in salvo dall'insostenibile solitudine della condizione umana - riassume in sé alcuni dei passaggi fondamentali della mitologia spielberghiana. A partire dalla versione più dolorosa di ciò che chiamiamo mancanza, quel sentire che non ha metro di paragone perché compagno costante sin dall'età più tenera, nostalgia struggente negli occhi di un individuo per ciò che non è stato o che non si è conosciuto. Lo stesso che attraversava, in E.T., il corpicino esile di Elliot. E ancora, l'incontro con l'ignoto, apparentemente mostruoso quanto gradualmente assimilabile a una dimensione di intimità calda come null'altro al mondo. Il calore di chi sa leggerti nel cuore, così come nei sogni. Il senso di Spielberg per l'avventura e per il viaggio attraverso spazi conosciuti da sempre, che rivelano all'improvviso aspetti visivi e funzionali sorprendenti.
C'è tutto insomma nel GGG. Eppure l'essenziale, letteralmente in questo caso, è invisibile agli occhi.
A stridere più di tutto è la scelta di rappresentazione di un altro snodo fondamentale della storia di Dahl, che appare oggi più che mai stonata. L'intervento della regina, l'arrivo dei generaloni in gran spolvero, la scena dell'attacco ai giganti con tutto l'armamentario cinematograficamente più evocativo e esplicito, da Rambo a Salvate il Soldato Ryan, non hanno nulla di ironico o divertente. Si tratta di un convinto “arrivano i nostri” di cui conosciamo abbondantemente i retroscena attraversati da volontà di sopraffazione e ipocrisia. Invece qui, sebbene piccoli e scioccherelli, regine e comandanti, si muovono sotto lo sguardo benevolo dei protagonisti, determinati, sebbene a "fin di bene", a far giustizia, a punire. L'uso dell'immagine amplifica una trovata letteraria simbolo dell'ironia caustica dello scrittore inglese ma, allo stesso tempo, l'abnorme esperienza visuale relativa a concetti come intervento militare, guerra, assimilata nei decenni che ci separano dal contesto in cui è stata scritta, ne influenza nettamente la percezione. Sul finale, debolissimo, Sophie e GGG non sono più al centro dell'attenzione. L'immagine dei giganti, colpevoli solo di una certa ributtante rozzezza e poco cervello, confinati per sempre sull'isola con semi di zucca disgustosa, resteranno una delle scene più tristi e anacronistiche viste negli ultimi tempi.

(The Big Friendly Giant); Regia: Steven Spielberg; sceneggiatura: Melissa Mathison; fotografia: Janusz Kaminski; montaggio: Michael Kahn; musica: John Williams; interpreti: Mark Rylance, Ruby Barnhill, Bill Hader, Rebecca Hall, Penelope Wilton, Jemaine Clement, Ólafur Darri Ólafsson, Adam Godley, Michael Adamthwaite, Haig Sutherland; produzione: Amblin Entertainment, DreamWorks SKG, Reliance Entertainment; distribuzione: Medusa Film; origine: USA, Gran Bretagna, 2016; durata: 117'; webinfo: Sito Ufficiale



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