Sul finire di una lezione dedicata alla grammatica del cinema classico un professore, traendo spunto dagli appunti annotati su un quadernino, cita una frase di Raoul Walsh, uno degli autori più prolifici della Hollywood degli anni d'oro: "Non ci sono 36 modi di mostrare un uomo che sale a cavallo."
Tornato a casa, quel professore inizia ad arrovellarsi: ma davvero la frase di Walsh diceva così? E da dove l'aveva presa lui quella citazione? Qual è la fonte?
Questo è lo spunto - che a naso potrebbe essere autobiografico - da cui Nicolás Zukerfeld, regista nonché insegnante di storia del cinema argentino, è partito per realizzare un piccolo film dalle grandi idee che si chiama appunto There are not thirty-six ways of showing a man getting on a horse (No existen treinta y seis maneras de mostrar cómo un hombre se sube a un caballo), presentato in concorso al Pesaro Film Festival 2021 e, per me, vincitore obbligato della manifestazione.
There are not thirty-six ways of showing a man getting on a horse, che dura 70 minuti scarsi, è diviso in due capitoli. Anzi, tre, perché c'è un brevissimo e illuminante epilogo.
Nel primo, Zuckerfeld propone un curatissimo e divertente blob di spezzoni di film di Walsh - uno che nell'arco di una carriera che è iniziata ai tempi del muto e d è proseguita fino alla metà degli anni Sessanta ha diretto oltre 140 film, tantissimi western ma anche noir, film d'avventura, e molto altro ancora - organizzati per assonanze tematiche.
Si parte, ovviamente, da un'infinità di gente che sale a cavallo, per poi mostrare gente che scende da cavallo, scontri a fuoco, duelli, baci appassionati, letture di lettere e telegrammi, gente che entra da una porta o che esce da una porta. E quando dico gente parlo, anche, di gente come Clark Gable, John Wayne, James Cagney, Humphrey Bogart, Gloria Swanson, Edgar G. Robinson, Rita Hayworth, Errol Flynn, Douglas Fairbanks, Ida Lupino e tanti altri.
Dopo questa esuberanza di immagini, che al tempo stesso confermano e smentiscono la frase "incriminata" del regista, ecco che lo schermo si fa nero, e una voce narrante inizia a raccontare la storia del professore e dei suoi dubbi, e delle tante telefonate e e-mail scambiate con amici e conoscenti critici in tutto il mondo per risalire alla fonte e alle esatte parole pronunciate da Walsh.
Una storia che Zukerfeld racconta in maniera avvincente, come un'indagine poliziesca, ma senza mai dimenticare di tenere viva una vena fortemente (auto)ironica.
Fatto sta che, nel turbinio di mail, ricerche incrociate, pdf di vecchie riviste di cinema inviate come allegati e consultazione di tomi polverosi, vien fuori che quella frase lì Walsh non l'ha mai detta, perlomeno non così: i modi che menzionava potevano esser cinque, o uno solo (il 36 pare essere un francesismo); e forse non parlava di cavalli ma (guarda un po', come nel blob) di persone che entrano in una stanza. O sì?
Senza stare a svelare troppo della storia racconta e dei suoi esiti, è facile sintetizzare cose abbia fatto Zukerfeld con There are not thirty-six ways of showing a man getting on a horse: ha raccontato con umorismo, passione e originalità della grande passione, a tratti fin troppo ossessiva, che i cinefili hanno per il cinema; ha mostrato , prove alla mano, come il lavoro del critico possa essere non solo interpretativo, ma anche creativo, e che l'unione tra film e critica è generatrice di cose nuove e impreviste, ma anche quali siano i danni della sovrainterpretazione.
Perché alla fine dei conti, come dimostra l'illuminante epilogo del terzo capitolo, che non vado a raccontare, There are not thirty-six ways of showing a man getting on a horse parla di una cosa sopra a tutte le altre: parla del fatto che bisognerebbe smetterla, forse, di essere così ossessivi, cerebrali e masturbatori quando si parla di cinema, lo si spiega e lo si commenta. E magari anche quando il cinema lo sì fa: forse non è vero che esista un solo modo di filmare una certa cosa, ma di certo il lavoro del regista è quello di far credere che lo sia, si dice a un certo punto nel film).
Perché, come dice un anziano critico che aveva intervistato Raoul Walsh, e che dopo tanti anni ammette candidamente che non è in grado di aiutare il professore nella sua ricerca, il senso di quella frase, quale che sia la sua formulazione, è uno solo, e faremmo tutti bene a ricordarcelo: il cinema, alla fine dei conti, è una cosa semplice.
Grazie al cielo.
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