lunedì 1 marzo 2021

Memory Box: recensione del dramma sulla memoria del Libano degli anni '80, in concorso alla Berlinale 2021

Il Canada è un paese ben ancorato al presente, popolato in buona percentuale da persone rimaste con almeno un piede nel passato, oltre che in un’altra terra. Luogo d’immigrazione per eccellenza degli ultimi decenni, ha più volte raccontato storie nostalgiche sulle patrie d’origine dei suoi nuovi cittadini. Cosa che accade anche in Memory Box, diretto da due libanesi nati nel 1969, Joana Hadjithomas e Khalil Joreige, entrambi adolescenti durante la terribile guerra civile degli anni ’80. Con alcune somiglianze con il dirompente La donna che canta di Denis Villeneuve, film che lanciò la carriera del regista, il film mette in contrapposizione le due vite completamente opposte di una donna interrotta, tra il Canada contemporaneo e la sua famiglia attuale e un passato drammatico, ormai dimenticato o quasi, lasciato seppellire nella scatola dei ricordi del titolo, legato alla sua famiglia di provenienza. In questo caso veniamo portati negli anni ’80 a Beirut, in piena guerra civile, in una storia ispirata a quanto realmente vissuto, e conservato come diario quotidiano, da Joana Hadjithomas.

La Memory box giunge a sconvolgere la noiosa e piuttosto deprimente vita quotidiana della madre single Maia. All’interno ci sono una serie di quaderni, appunti e diari, oltre che registrazioni audio, che inviava alla sua amica per la pelle, appena morta. In una interpretazione tanto rigorosa quanto controproducente dell’amore di una madre per la propria figlia, la madre di Maia, anche lei a Montreal, aveva nascosto del lutto per non riaprire pagine di un passato di sofferenza, proprio come Maia non ha mai parlato della sua vita precedente alla figlia Alex, ormai quindicenne. La seconda generazione di immigrati che non comprende la perdita di memoria della prima, un percorso classico che rende ardua la comprensione e il passaggio di testimone di valori e priorità, anche all’interno della stessa famiglia. “Tutta la tua vita è una menzogna”, rinfaccia la giovane Alex alla madre.

Durante un Natale particolarmente gelido, sommersi dalla neve e da una patina monocolore che soffoca ogni vitalità, la famiglia al femminile riprende improvvisamente vita, non solo attraverso dialoghi fra arabo e francese, ma soprattutto con la ribellione di Alex, che decide di ascoltare le cassette e leggere i quaderni sugli anni della madre a Beirut, contro il parere di quest’ultima. Maia aveva infatti preferito soprassedere, dopo un tentativo troppo doloroso di togliere decenni di polvere e dolore da quei ricordi, ormai abituata a togliere semmai strati di neve gelida per uscire di casa in macchina la mattina. Una storia di donne, sopravvissute in un mondo senza più uomini, morti in prima linea. 

Memory Box prosegue come un viaggio alternato fra un presente statico, cristallizzato in un candore apparente, come quello della neve che diventa ghiaccio e nasconde la vita e i colori scuri della terra, e un passato di strabordante vitalità, spesso intessuta di violenza, ma anche di colori sgargianti e vitali, come la musica a tutto volume ballata da Maia, dal suo grande e primo amore Raja, e dai loro coetanei, sullo sfondo di una Beirut sempre più devastata da bombardamenti e incomprensioni, anche all’interno dei (tanti) schieramenti che si fronteggiavano.

Joana Hadjithomas e Khalil Joreige mettono a frutto le loro qualità di artisti visuali costruendo un mondo pieno di energia, fra fantasia e realtà, con animazioni frammentate, e la voce di Maia che racconta il dolore di una giovinezza troppo vitale per essere soffocata nei rifugi. Tanto che decide di darsi alla fotografia, come per mantenere in vita la sua Beirut, nonostante tutto. “Ho paura che la città crolli e svanisca sotto i miei occhi”, si sfoga in una di “quelle notti, in cui tutti eravamo alla ricerca di qualcosa che non trovavamo più”.

Fra il Canada di oggi e la nostalgia struggente per la Beirut in guerra degli anni '80, Memory Box apre la scatola dei ricordi di una donna dalla vita sospesa in un limbo di mera sopravvivenza materiale, presa per mano dalla giovane figlia che vuole guardare nel suo passato, per conoscere veramente la madre con cui vive ogni giorno. Per poterla fotografare, con lo smartphone che ha sempre in mano come ogni adolescente, vedendola finalmente, per una volta, veramente felice.



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