Amanda avrebbe potuto intitolarsi “Elvis has left the building” come dice Sabine alla figlia di sette anni Amanda prima di ballare un rock del Pelvico come non ci fosse un domani. Il domani insieme infatti non c'è perché la mamma si ritrova per banale caso in un attentato terroristico in un parco di Parigi e perde la vita. La piccola resta con lo zio ventiquattrenne scapestrato con le donne e precario nel lavoro che non sa nemmeno che si da la mano per attraversare la strada a una bambina delle elementari. La frase in inglese, usata dallo staff al termine dei concerti di Presley, significa: è tardi, andate a casa, la musica è finita. Su questo modo di dire (la giovane donna di mestiere fa l'insegnante di inglese al liceo) gira il meccanismo del film che, nel finale, oppone un messaggio di ottimismo alla tragedia vissuta (i titoli di coda scorrono su un paesaggio di parco, luogo macabro e portatore di dolore nella vita dei personaggi). La vita è dura e obbliga tutti a un confronto con sé stessi e, di conseguenza, a crescere. Lo farà David, lo farà Amanda, lo farà - si spera - Alison, la madre inglese che ha abbandonato piccoli David e sua sorella. La prima parte del film si svolge in un tono leggero, da commedia di incroci amorosi, di scuola Rohmeriana: il giovane si invaghisce della bella provinciale pianista a cui apre la casa presa in affitto (lavori del protagonista: colui che gestisce appartamenti in affitto a breve termine per conto di un proprietario locatario e potatore di alberi per il Comune), la corteggia en passant, alla francese (una chiacchierata, un sms, un gelato insieme), si fidanza, la presenta in famiglia, è superficialmente felice. La seconda parte sorprende, tutto d'un tratto, con un ribaltamento di registro, un fulmine a ciel sereno: una lunghissima pedalata in bici per la città conduce David, che raggiunge sorella è fidanzata, all'entrata della villa ancor prima della polizia, dopo aver incrociato due motociclisti e una macchina nera sgommanti, probabili attentatori. Il sangue, le lacrime, le urla di aiuto riempiono lo schermo, ma l'effetto non è enfatizzato. Quel che interessa il regista è raccontare il dopo: il nuovo rapporto tra zio e nipotina, le persone traumatizzate e il loro personale percorso per superare lo choc, le ambivalenze dei rapporti affettivi. Se la scelta di abbassare i toni può risultare comprensibile, meno felice è la semplificazione del messaggio: bisogna andare avanti, il tennista che si scoraggia davanti a tre colpi sbagliati può comunque rialzarsi e vincere l'incontro, la rinuncia alla vita (a frequentare i luoghi pubblici, ad esempio) e il catastrofismo non portano lontano. Un po' vero, un po' no
(Amanda); Regia: Mikhaël Hers; sceneggiatura: Mikhaël Hers, Maud Ameline; fotografia: Sébastien Buchmann; montaggio: Marion Monnier; musica: Anton Sanko; interpreti: Vincent Lacoste, Isaure Multrier, Stacy Martin, Ophélia Kolb, Marianne Basler, Jonathan Cohen, Greta Scacchi; produzione: Nord-Ouest Films, Arte France Cinéma; origine: Francia, 2018; durata: 107'
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