mercoledì 28 settembre 2022

Blonde, quell'allucinazione collettiva chiamata Marilyn Monroe

Era uno dei film più attesi del Festival di Venezia 2022, e non è difficile capire perché: un film su Marilyn, interpretato da Ana De Armas, prodotto da Netflix, tratto da un romanzo di Joyce Carol Oates, diretto da Andrew Dominik. Penso possa bastare.
È stato uno dei film più discussi del Festival di Venezia 2022, e non è difficile capire perché: basti dire del suo vertiginoso altalenare tra momenti altissimi e altri quasi trash, o comunque di cattivissimo gusto, da un certo punto di vista.
E però io penso che Blonde sia un film davvero molto bello, che se a volte rimesta nel torbido, nell'invedibile, nella volgarità moralmente ambigua, lo fa nel segno di un progetto complessivo coerente.

Blonde è una favola, una favola senza lieto fine. Se preferite, Blonde è l'incubo di un'esistenza tormentata e tormentosa, fatta di traumi, compromessi, abusi, lutti, mancanze, fragilità e circonvenzioni, e di certo non solo di riflettori, successo, denaro e popolarità. È ovvio, quel che dice Dominik: c'è stata Norma Jeane, è c'è stato il personaggio Marilyn.
E però, dicesse solo questo, forse sarebbe un po' semplicistico, un po' banale, questo Blonde, per quanto curato, patinato, approfondito.
L'impressione, l'impressione mia, che deriva già dallo stile che Dominik usa per raccontare, in scene non proprio bellissime, della giovane Norma Jean e della instabilità mentale di sua mamma, e della figura ideale e fotografica di un padre che cercherà sempre e non incontrerà mai, e che poi prosegue, modificato e via via perfezionato nel corso del racconto, è che Blonde sia un'allucinazione.
La allucinazione che è stata la vita di Norma Jeane Baker, e quella (dell'esistenza) di Marilyn Monroe, figure che attraversano il film in uno stato di costante alterazione psicologica e psicotica, che vivono (subiscono) flash esperienziali nei quali il massimo della loro presenza fisica coincide con il massimo della distanza psicologica, come nel caso di molti rapporti sessuali.
Di più, direi. L'allucinazione di Blonde è l'allucinazione di noi spettatori che lo guardiamo. È l'allucinazione del cinema, del suo immaginario, delle sue luci e delle sue ombre. L'allucinazione collettiva di quell'immaginario - già di per sé onirico - che il cinema, il divismo, i film, le immagini, le cronache e i pettegolezzi hanno costruito e poi sedimentato nel corso dei decenni.

In questa maniera, attraverso il filtro dell'allucinazione, singolare e collettiva, si spiegano non solo la struttura del film e il suo andamento, ma l'alternanza tra una cura formale sopraffina, che inanella senza soluzione di continuità delle ricostruzioni perfette delle scene, delle foto, delle immagini, delle battute, delle forme, delle acconciature, degli abiti e delle credenze di e su Marilyn che tutti noi abbiamo, almeno subliminalmente, incastonate negli occhi e nella testa.
E dall'altra invece quei momenti così spogli e volgari, come Marilyn che viene presa da dietro sulla scrivania nel corso del suo primo colloquio con Darryl F. Zanuck, vedendo così spalancarsi, con le sue gambe, l'inizio della sua carriera, o il sesso orale praticato a un JFK che parla al telefono sdraiato nel letto di un hotel, reduce da un altro incontro sessuale. O, ovviamente le contestatissime immagini dei feti che Marilyn abortirà, o la soggettiva vaginale di una delle operazioni.

Blonde è un film quasi lynchiano, dove gli sdoppiamenti richiamano quelli di Mulholland Drive, le meschinità e le abiezioni e i trip le quelli di Twin Peaks, le indagini interiori quelle di Inland Empire.
La messa in scena che diviene realtà e la realtà che diviene messa in scena, l'allucinazione - che sia di Marilyn, la nostra, di Dominik o di chiunque altro, forse di tutti noi messi insieme - è allora l'unica forma possibile di comprensione, che è diversa dalla conoscenza. Di esplorazione dei meandri della mente, del sublime e dell'abietto che vi annidano.
In quella di Marilyn, e nella nostra.



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