Opera seconda del veneto Antonio Padovan racconta due fratelli molto diversi che imparano a conoscersi.
Lo spazio è da sempre un luogo dell’anima dell’essere umano. Un mistero seducente e spaventoso, un luogo da cui possono provenire conferme che non siamo soli, sotto forma di alieni più o meno minacciosi, o un posto ultraterreno in cui i nostri amati che non ci sono più potrebbero ancora mettersi in contatto con noi, come nel delizioso Tito e gli alieni di Paola Randi. Però l’infinito che ci circonda può anche essere un luogo da raggiungere fisicamente, la linea d’ombra da valicare per partire per un viaggio nella parte più profonda di noi, oltre che dello spazio.
È il caso de Il grande passo, un altro film italiano che vuole scommettere sulla fantascienza per raccontare qualcosa di molto più terreno e comune come la ricerca di una propria identità in una società che ci vorrebbe tutti uguali e omologati. Non lo è sicuramente, omologato, il solitario e scorbutico Dario, che abita in un nordest nebbioso e dalla campagna infinita che somiglia a quello raccontato da Carlo Mazzacurati, e che non stonerebbe, come personaggio, in un film del regista veneto. In fondo viene da quelle parti anche il giovane autore, Antonio Padovan, giunto all’opera seconda, a tre anni di distanza da Finché c’è prosecco c’è speranza.
Come in quel film, anche ne Il grande passo il protagonista, Dario, è Giuseppe Battiston, per la prima volta messo al fianco di una sorta di sosia fisico, Stefano Fresi, ovvero Mario. I due sono fratelli di madre diversa, praticamente non si conoscono. Mario abita a Roma, è un bonaccione senza troppe ambizioni con una dipendenza dal gelato all’amarena, oltre che dai pasti che ancora gli cucina la madre, con cui condivide la casa e un negozio di ferramenta. Dario invece gli attrezzi li usa per volare via leggero, picchia duro su pesanti martelli e macchinari da lui inventati per costruire una navicella spaziale con cui andare sulla luna. Ha deciso di dedicare la sua vita a quello, al suo sogno, fregandosene delle meschinità degli ostili caratteristi che si aggirano nel suo paese e nella sua vita, segnata da bullizzazioni e prese in giro. Lo chiamano Luna storta. Proprio per un tentativo di decollo di Dario fallito, risoltosi in un incendio, viene convocato il fratello Mario, vista l’indifferenza del padre sempre assente. Occasione per i due di conoscersi, dopo la prevedibile e un po’ macchinosa sequela di incomprensioni reciproche, con tanto di spaesamento del romano nell’ostile brughiera padana.
Il grande passo è quello che porta a seguire il proprio istinto, rivendicare la propria eccentricità, e in questo Padovan non ci racconta niente di rivoluzionario. Quello che cerca è di lavorare su una forma che mescoli i generi, con gli effetti speciali di una missione spaziale alternati a qualche siparietto da commedia all’italiana. Una fusione non sempre efficace, un ibrido che meritava di lasciare più spazio alla fantascienza, ai voli liberi ed eccentrici di Dario. È un peccato, perché la coppia Battiston e Fresi era un’ottima idea, e in fondo funzionano come falsi sosia, come gemelli ben diversi, in cui però lo spazio per la conoscenza reciproca ne rallenta il viaggio con troppe diversioni, rallentando il ritmo e diluendo troppo la portata incandescente del carburante che li avrebbe potuti portare fino alla Luna.
Un film che arriva a curioso suggello dei festeggiamenti del cinquantenario dello sbarco sulla Luna, un sogno che tenne col fiato sospeso miliardi di persone in tutto il mondo, ma che ora sempre dimenticato e fuori moda, come Dario. Un sogno figlio della guerra fredda seppellito con la caduta del muro (altro anniversario di quest’anno) e della cortina di ferro. Manca proprio semplicemente voglia di sognare, oggi, o anche solo di guardare in alto ogni tanto immaginando cosa ci sia. Siamo accecati da un inquinamento luminoso e cinico, è il monito più chiaro ed efficace su cui Il grande passo ci invita a riflettere. o meglio ancora, ad agire e partire.
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