Un'altra giornata del Torino Film Festival 2019 attraverso un giro nelle sezioni collaterali.
Mentre la pioggia ha cessato di cadere implacabile, il Torino Film Festival prosegue a macinare decine di film al giorno, un programma così ampio da stordire come una sindrome di Stendhal, rendendo complesso dare un giustizio sintetico su questa edizione intesa in senso complessivo, così come sulle altre stagione. Due ottimi film presentati in queste ore ve li abbiamo già raccontati da altri festival, ma vi consigliamo di vederli: sono Fischia! (La Gomera) di Corneliu Porumboiu, ennesimo notevole tassello di una cinematografia come quella rumena in grande salute, e Dio è donna e si chiama Petrunya di Teona Mitevska, la rivelazione della scorsa Berlinale, in uscita nelle sale dal 12 dicembre.
La sezione Festa mobile ha regalato uno dei maggiori incassi dell’anno in patria, lo spagnolo Mientras dure la guerra di Alejandro Amenabar, il ritratto delle ultime settimane di vita dello scrittore, intellettuale, politologo Miguel de Unamuno, a cavallo della sollevazione militare contro la repubblica spagnola, scontro che provocò una guerra civile, combattuta fra il luglio 1936, periodo in cui parte il film, e l’aprile del 1939. Un colpo di stato promosso da alcuni militari, fra cui Francisco Franco, di cui viene raccontata l’ascesa a leader dei nazionalisti e che finì per guidare la dittatura militare fino al 1975. La guerra portò al crollo della Repubblica, che entrò in lotta contro i nazionalisti guidata dal Fronte Popolare di ispirazione marxista.
Siamo a Salamanca, cuore dell’accademia spagnola, dove Unamuno è rettore da tempo. Polemista fine, ma anche lontano dalle posizioni giovanili di sinistra, all’inizio del film di Amenabar guarda con fiducia, sicuramente non con scetticismo, al colpo di stato militare. Un percorso che lo porterà presto, anche per la carcerazione di persone a lui vicine, a prendere una posizione ben diversa. Il film ha il merito di raccontare una figura di intellettuale celeberrima nel suo paese, in quegli anni come oggi, con le sue ambiguità, i suoi errori e la sua messa in dubbio tardiva dei principi in cui aveva creduto. Un’indagine storico-politica non banale e non frequente in Spagna, dove i conti con il franchismo non si sono mai realmente fatti e la ferita non è ancora cicatrizzata, né il lutto è stato pienamente elaborato attraverso una visione dei fatti condivisa da tutti, nella monarchia che ha poi preso il potere.
Particolarmente significativo è l’incontro di Unamuno con Franco, appena nominato leader (poi generalissimo, poi jefe, equivalente del Duce mussoliniano e del Fuhrer hitleriano) dai suoi colleghi generali, con un mientras dure la guerra, fintanto che duri la guerra, sparito nella notte dal documento ufficiale. I due si ritrovano a Salamanca quando il governo militare si sposta lì, con tanto di giornata dedicata alla razza, momento cruciale e migliore del film, per le parole di cristallina dignità e dall’alto valore morale declamate da Unamuno davanti a un pubblico di militari, generali, intellettuali e professori venduti al nascente regime, oltre alla moglie cattolicissima di Franco.
Quello che convince poco è la forma, bolsa e retorica, che conferma i dubbi su un autore dalla carriera così particolare e oscillante come Amenabar, regista di lavori come Apri gli occhi e The Others, ma anche Mare dentro e Agora.
Comincia a Cipro, il film di Abel Ferrara che omaggia il fascino sempreverde delle vecchie sale cinematografiche di quartiere newyorkesi. Il documentario racconta, infatti, uno dei principali proprietari di sale storiche della città, di quelle che spesso ancora proiettano film d’autore, in quartieri cruciali come il Greenwich Village o periferici come il Queens. Nicolas Nicolau, detto Nick, nasce infatti nell’isola del mediterraneo per emigrare con la famiglia a New York e iniziare una carriera nei cinema, in senso letterale, prima come ragazzo di bottega, poi maschera e tuttofare, quindi come gestore e poi proprietario. È lui a guidare Ferrara in giro per le sale indipendenti della città, piene di riferimenti, suggestioni e immagini dei cruciali anni ’70; per il cinema e le sale americane, ma anche per la carriera di cineasta di Ferrara. Un omaggio nostalgico al valore terapeutico della visione in gruppo di film, al buio, davanti a un grande schermo. Per i cinefili, che lo guarderanno con tenerezza.
Proseguiamo questo breve viaggio nelle sezioni collaterali per parlare di un film italiano di difficile collocazione. Si intitola Paradise, è diretto dal triestino Davide Del Degan ed ospitato in After Hours, la sezione più espressamente di genere. Calogero è un siciliano comune, vende gelati in un carretto. Un giorno assiste a un omicidio di mafia, denuncia il colpevole e si ritrova in mezzo ai monti innevati del Friuli, fra il lago e gli ottimi prosciutti di Sauris, a spese del programma protezione testimoni. Voleva solo fare la cosa giusta, senza tacere e procrastinare la catena di omertà della sua terra, anche per la figlia che stava per nascere, ma che ora non può vedere, e con lei la moglie. Con toni da commedia, quasi priva di dialoghi, Paradise è il racconto di chi vuole solo fare le cose giuste, con un paradosso alla Coen che porta a una deriva inattesa alla storia e al destino del buon Calogero. Interessante nello stile e nell’atmosfera, anche se le trovate erano forse più adatte a un corto, tanto da risultare un po’ troppo stiracchiato.
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