In fondo il concorso del Torino Film Festival è come una festa a cui siamo invitati, anzi, una serata in cui siamo coinvolti direttamente fin dal primo momento e dobbiamo partecipare e interagire con gli ospiti. Facciamo una cena seduti, in cui non conosciamo quasi nessuno, visto che si tratta di opere prime, al massimo seconde, molto raramente terze. Che genere sarà? Che film saranno? Dobbiamo riconoscere che la gender fluidity è una conquista dell’appassionato di cinema ormai da decenni. Venendo da tempo al festival, sappiamo che chi dirama gli inviti di solito non ci delude, sceglie persone simpatiche, diverse una dall’altra il giusto, provenienti da vari paesi, poi magari un paio sono fastidiose, talmente sofisticate da non volerti guardare in faccia, figuriamoci rivolgerti la parola, parlano solo col proprio ombelico o con qualcuno come loro.
Ma in linea generale il concorso del Torino Film Festival è stato in questi anni una cena con persone interessanti e un buona musica di sottofondo. Non poche sono quelle che poi abbiamo imparato a conoscere anche al di fuori, incontrandole da altre parti con piacere. Quest’anno siamo rimasti bloccati un po’ all’ingresso e abbiamo parlato con qualche tipo dimenticabile, ma entrando in salone abbiamo iniziato a parlare con una persona davvero capace di coinvolgerci, emozionarci, interessarci. Poi non sarà bella oggettiva, ma Pink Wall è stato un incontro che ci ha fatto piacere fare.
Uscendo dall’impervia metafora, vediamo di impossessarci definitivamente del soggetto di queste prime righe: si tratta dell’opera prima dell’attore Tom Cullen, protagonista molto amato in Weekend e visto in qualche puntata di Downton Abbey. Ha scelto di dedicarsi interamente alla regia, comparendo solo in un piccolo ruolo, ma coinvolgendo come protagonista la compagna da molti anni, Tatiana Maslany, resa nota della serie Orphan Black, con cui ha comprodotto il film, oltre a Jay Duplass, insieme al fratello uno dei più amati attori e registi del cinema iper indie americano da molti anni. I due sono una coppia la cui storia d’amore viene raccontata nel corso di sei momenti, in sei anni. Una struttura sempre in voga nel racconto cinematografico degli ultimi anni, che permette di concentrare il pathos del film in capitoli non per forza cruciali, ma talvolta quotidiani, andando avanti e indietro nel tempo, senza un preciso ordine cronologico.
Alcuni capitoli funzionano meglio di altri, come è ovvio, l’inizio risulta un po’ goffo e imbarazzato, come quando Cupido sta per scoccare la freccia e i due interessati cercano di apparire migliori di quello che sono, mentre i momenti che convincono di più sono proprio quelli in cui appaiono "peggiori" di quanto siano, messi a nudo dall’intimità e la conoscenza reciproca lunga ormai anni, che implacabilmente non permette più di indossare maschere, di recitare. Proprio il momento in cui non sembrano più recitare, che coincide con una cena fra amici che è una montagna russa di stati emotivi, il racconto inizia a fluire piano e credibile, coinvolgendo noi spettatori a salivazione azzerata, palpebre spalancate e talvolta condotto lacrimale inumidito.
Pink Wall è implacabile, acuto, non vuole essere "carino" o "grazioso", evita cliché e idealizzazioni, è chiuso quasi tutto in interni o in paesaggi poco solari, fa male quando si insinua nei ricordi più dolorosi di noi spettatori, ma conforta nel presentare una storia d’amore complessa e non banale, in cui la maturità della coppia è messa alla prova, e con essa quella di noi che guardiamo. È inesorabile nello sbatterci in faccia come l’equilibrio, in una coppia, è una chimera, o magari il punto di partenza per superarne la centralità. Intervengono sempre fattori esterni e interni, dagli amici al successo professionale, dalla voglia di avere figli o di inseguire altre priorità, pronti a far prevalere l’uno o l’altra in ogni determinato momento. Una guerra fredda, forse, ma l’unica che valga la pena di essere combattuta.
Proprio un bell’incontro, ci ha riservato anche quest’anno, il Torino Film Festival.
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