venerdì 29 novembre 2019

Ms. White Light, la ragazza che aiutava a morire in un concorso del TFF37 che parla spagnolo

Una breve storia d’amore argentina, un Cube basco folle e divertente e l’originale viaggio di una ragazza che empatizza con i malati terminali.

Parlano spagnolo due dei più interessanti film presentati nel concorso del Torino Film Festival 2019. Due film che più diversi non potrebbero essere, anche se è il primo, lo spagnolo El Hoyo, quello più originale e signfiicativo, una sorta di Cube dei giorni nostri, per l’ambientazione geometrica, costretta spazialmente e misteriosa, in cui sono ambientate le sue vicende. Trascinante, ironico e spiazzante, è quello che ci voleva in un concorso 2019 sottotono, decisamente inferiore rispetto agli anni scorsi, che spesso ci avevano regalato ottime sorprese e vere scoperte. È un film basco, a essere precisi, diretto da Galder Gaztelu-Urrutia, che racconta di un uomo che si sveglia in una cella ampia, con a fargli compagnia solo un vicino nel letto accanto e una copia di Don Chisciotte della Mancia di Cervantes, uno dei molti inserimenti ironici e colti di questo racconto molto politico. Siamo in una vera prigione, ma sviluppata in senso verticale, con un ascensore che ogni giorno sposta in verticale piatti e piatti di cibo, più abbondante e ricercato in alto, fatto solamente di avanzi man manco che si scende di piano. Mondo distopico, in cui il segreto per scappare non è certo facile da scoprire, nel film sorpresa di quest’anno. Dopo averlo visto, guarderete alla panna cotta con occhi diversi.

Restiamo in Spagna, ma anche qui in una regione autonoma, la Catalogna, e ancora più nel dettaglio a Barcellona, per il film dell’argentino Lucio Castro dal titolo Fin de siglo, fine secolo. C’è in effetti un’atmosfera dolente e da passaggio epocale nascosta in una storia piana, semplice se non addirittura minimalista. Ocho l’argentino e Javi il catalano si incontrano a Barcellona. Pochi fronzoli, si piacciono e fanno sesso, mentre ognuno è impegnato con un altro partner: Javi ha una relazione col compagno da qualche anno, ha una figlia e vive a Berlino, invece Ocho è di base a New York, dove è impegnato in un rapporto che dura da vent’anni. Quasi per azzardo scoprono che proprio venti sono gli anni di distanza dal loro primo incontro, in cui si erano sempre piaciuti. Venti sono anche gli anni che rimandano a un fine di secolo in cui sogni e speranze erano diverse, per il mondo, per dei giovani ventenni e per una storia d’amore la cui importanza non è legata certo alla sua durata. Può bastare in fondo un attimo o un cambio di prospettiva per cambiare radicalmente le cose. Interessante davvero come opera prima, anche grazie a due attori convincenti come Juan Barberini e Ramon Pujol.

A proposito di sorprese, e di originalità, uno dei film a cui ci siamo più affezionati del concorso è Ms. White Light di Paul Schoulberg, che abbiamo recuperato nelle ultime ore. Quasi tutto girato in interni, soprattutto in ospedali, il film racconta di Lex (la Robert Colindrez della serie I Love Dick), una giovane che ha un talento parricolare, quello di riuscire a entrare in sintonia con chi sta morendo. La sua è un’empatia tanto naturale con quella specifica categoria di persone tanto quanto lo è l’incapacità di relazionarsi a qualsiasi livello con chiunque altro. Vive e lavora con il padre, lui gestisce la parte commerciale e marketing, premendo per aprirsi alla modernità della comunicazione, ai social, lei è quella che va sul campo, o meglio accanto al letto dei pazienti in fin di vita. Sono pagati da familliari incapaci a gestire una situazione così definitiva, o quantomeno ad accompagnarli alleviando le ultime ore. 

Un mestiere decisamente particolare, che può ricordare qualcosa di simile che viene praticato in Giappone, in un film eccentrico, una black Comedy in cui un’ironia trattenuta acida e ‘scorretta’ si alterna a momenti di dramma più tradizionale, che ha il merito di fregarsene di un tabù tipicamente occidentale come la morte. Perché, in fondo, “stiamo tutti per morire”, e imparare ad affrontare quel momento per tempo può aiutare a vivere in pieno gli anni che ci sono concessi precedentemente, come Lex impara conoscendo una sua giovanissima cliente, guarita miracolosamente e vogliosa ora di sistemare lei la sua vita e quella del padre, oltre a un insolito medium che, anche lui, “viene assunto per agevolare la dipartita dei clienti”. Quello che accomuna questo gruppetto curiosamente assortito, dall’andatura claudicante come le loro vite e il look da rappresentanti di aspirapolveri del midwest, sia per gli uomini che per le donne, è la solitudine. Uno sguardo molto contemporaneo sull’assenza di comunicazione, con il paradosso che per Lex diventa possibile dialogare solo con chi sta morendo, mentre ancora non ha chiarito una buona volta con il padre la morte della madre in un incidente.

Deludente, invece, il secondo film diretto da italiani del concorso, pur di produzione e ambientazione americana. Now is Everything è l’opera prima di Valentina De Amicis e Riccardo Spinotti, figlio di Dante, qui presente come direttore della fotografia e produttore. In America dagli anni ’80, Spinotti padre è stato candidato a due Oscar, per L.A. Confindential e Insider. Ha lavorato con Michael Mann, Brett Ratner, Michael Apted, Sam Raimi e Anthony Hopkins, che proprio in Now is Everything interpreta un piccolo ruolo. Fin dalla prima scena vediamo proposti cliché noir lynchiani, fra telefonate in piena notte, hotel misteriosi dai corridoi infiniti, fra femme fatale, dark lady, protagonisti tutti bellissimi, voci fuori campo in cerca di poesia che stonano nell’umoristico involontario e una seconda parte più on the road alla ricerca di una camera a spalla nella natura e nell’esistenziale che sembra una parodia di Malick. Opera prima piena di presunzione, priva di originalità e decisamente non riuscita.



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