Quando, il 3 giugno di quest'anno, ha avuto luogo a Vienna la prima mondiale di Happy Lamento, Kluge ha tenuto un breve discorso introduttivo che può aiutare - chi ovviamente sa il tedesco e chi non dovesse essere troppo pratico del lavoro di Kluge, vicino e lontano - a capire meglio le sue intenzioni autoriali. A un certo punto, Kluge afferma che il suo lavoro, estetico e politico se mai ve ne furono, è “gegen die Algorythmenwelt der Silicon Valley” (“contro l'universo algoritmico della Silicon Valley”) contro ogni omologazione e prevedibilità delle attitudini estetiche. Per realizzare questo ambizioso progetto, come fa ormai da decenni grazie al suo instancabile lavoro letterario e televisivo (più di 3000 ore di programmazione alle spalle), Kluge, che ha 86 anni e una lucidità impareggiabile, mette insieme una quantità impressionante di materiali, nuovi e meno nuovi, e li combina in un insieme complesso sia sull'asse paradigmatico che sull'asse sintagmatico. Allo spettatore poi il compito di combinare e di assemblare e di trovare un senso, in questo e non solo in questo Kluge resta fedele alla sua poetica, esposta già negli '60 del secolo scorso, secondo la quale i film si formano nella testa dello spettatore e i richiami sono sempre gli stessi: il cinema delle origini, le avanguardie, il modernismo cinematografico, di cui lui stesso è stato un indiscusso protagonista. Per rendere ancora più avvincente e in certi momenti ardua l'operazione di co-autorialità richiesta allo spettatore, Kluge ricorre più spesso di quanto è solito fare alla tecnica dello split screen, pervicacemente sottolineando che il cinema aveva cominciato prestissimo a farne uso, e non si vede perché, adesso, queste enormi potenzialità espressive non debbano essere compiutamente sfruttate per privilegiare invece una piatta normalizzazione. A proposito di co-autorialità, oltre ai materiali girati o ripresi da Kluge, il film vive della collaborazione con un assai prolifico videomaker filippino, noto agli addetti ai lavori, che risponde al nome di Khavn de la Cruz (1973) il quale ha girato una serie di scene che paiono tratte da un gangster movie distopico ambientato negli slums di Manila. Di nuovo: allo spettatore il compito di capire quali relazione intrattengono questi materiali con quelli klughiani. A un certo punto, forse, qualche illuminazione potrebbe venire dalle sequenze documentarie su inutili summit e guerre nel mondo, presentate da Kluge, appunto, in split screen e in relazione dialettica con le sequenze filippine dove la violenza regna sovrana, anche se il regista tedesco non vuol certamente predicare e porre il dito sulla mancanza di volontà da parte dei grandi della terra di guarire le miserie nel mondo, e anche perché proprio le scene a Manila, non prive di effetti splatter, sono quelle che al meglio giustificano l'uso dell'aggettivo “Happy”di cui al titolo. Inutile, ovviamente, in questo film cercare un qualche straccio di plot; ma chi conosca Kluge ritroverà alcuni complessi tematici a lui cari, cominciando, per esempio, da quegli animali che nel 2018, nel cinquantesimo anniversario del ‘68, a Venezia assumono un'importanza simbolica, ossia gli elefanti, che tanta parte ebbero in Artisti sotto la tenda del circo, perplessi, il film che, appunto cinquant'anni fa, qua vinceva il Leone D'Oro. Gli elefanti sono per Kluge, che si muove costantemente per ampie campiture temporali, i testimoni di un passato ancestrale e allegoria della memoria. Memorabile la scena in cui tre inservienti al mattino lavano due elefanti, straziante il racconto dell'esecuzione di un elefante filmata da Edison nel 1903, Kluge la racconta ma decide giustamente di non farla vedere, toccante l'evacuazione di un circo sovietico all'arrivo dei carrarmati tedeschi nel 1941. Poi c'è la luna, con tutta la sua alterità malinconica, presente fin dai titoli di testa tramite la canzone Blue moon, cantata nelle lingue più svariate (anche in italiano) e con infinite variazioni, oltreché con tante e diverse immagini nonché lo splendido lacerto d'intervista a Heiner Müller, che con Kluge, negli anni '90, costruì un meraviglioso sodalizio intellettuale (a proposito di interviste, il film è, come al solito, pieno di fake-interviews, grazie alla collaborazione di suoi storici compagni di strada, fra cui il grande e compianto Peter Berling). Poi c'è la guerra, anzi le guerre, passate e presenti su cui Kluge da sempre ossessivamente ritorna. Poi c'è il capitalismo con tutte le sue contraddizioni: splendida la sequenza con in sottofondo la mirabile musica di Wolfgang Rihm, con una specie di elegia sulla merce mai acquistata, che peraltro si era già vista nel triplo DVD dedicato al progetto di Ejzenstein di trarre un film dal capitale di Marx. E poi, annunciato fin dall'inizio, con l'immagine della lampadina (ma anche della luna) tutto il grande tema della luce che non può non fare venire in mente, pensando a un autore cresciuto alla scuola di Adorno, all'illuminismo e alle sue dialettiche aporie.
(Happy Lamento); Regia: Alexander Kluge; sceneggiatura: Alexander Kluge, Khavn de la Cruz; fotografia: Thomas Willke, Albert Banzon, Thomas Mauch, Erich Harandt; montaggio: Andres Kern Kajetan Forstner, Roland Forstner, Toni Werner; interpreti: Helge Schneider, Heiner Müller, Galina Antoschewskaja, Peter Berling; produzione: Kairos Film in collaboration with Rapid Eye Movies in association with Feat. Khavn origine: Germania 2018; durata: 93'.
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