Il grande regista nel 1970 riporta al cinema il Brancaleone da Norcia di Vittorio Gassman, accompagnato da una nuova e spassosa corte dei miracoli, tra cui Paolo Villaggio e Lino Toffolo.
Il nostro cinema di un tempo - e parliamo dell'età d'oro della cosiddetta commedia all'italiana - ha avuto la fortuna di avere autori di grande intelligenza e cultura, che non si davano tante arie e che non sono mai stati snob nei confronti del cosiddetto popolo e dei suoi gusti, perché è in mezzo alla gente che vivevano. Parlavano, sceneggiatori e registi, un linguaggio comprensibile a tutti, e miglioravano il pubblico con un intrattenimento intelligente, che a volte, attraverso le maglie della commedia, facevano passare perfino dei messaggi importanti. Mario Monicelli, Age (Agenore Incrocci) e Scarpelli erano tre di queste menti geniali. Nel 1966 il magnifico trio decide di rivisitare a modo suo il Medioevo con L’Armata Brancaleone, in cui concentra l'attenzione su un'epoca stracciona, vissuta da un manipolo di scalcagnati personaggi sotto la guida di un cavaliere, Brancaleone da Norcia, armato di buone intenzioni, ma poco assistito dalla sorte e dall’intelligenza. Nelle parole di Monicelli:
“Non volevamo far vedere l’Alto Medioevo che si raccontava a scuola, nei romanzi di Re Artù, della Tavola Rotonda… tutti belli, nei loro castelli. Un Medioevo fatto di cortigiani, di dame, di duelli e tornei, insomma: un Medioevo molto raffinato, colto, dove tutti stavano bene. Tutto questo non era vero: la verità è che il Medioevo era una epoca selvaggia, ignorante, priva di cultura”.
E dunque cosa poteva esserci di meglio che inserire un gruppo di tragicomici poveracci nell’epopea nobile per eccellenza? Di sicuro gli italiani non avrebbero avuto problemi a riconoscercisi, così come era avvenuto per I soliti ignoti. E infatti il film è un successo talmente grande che tre anni dopo esce un sequel, Brancaleone alle Crociate, in cui Vittorio Gassman riprende il ruolo del cavaliere “cretino”, un donchisciotte fomentato da idee di eroismo e nobilità ma irrimediabilmente inadeguato. L’altra invenzione geniale dei nostri fu la lingua: un misto tra un italiano dialettale pre-volgare e un latinorum buffo assai, di cui Mario Monicelli nella stessa intervista ad Andrea Palazzino racconta le genesi:
“Come parlavano nell’anno 1000? L’unica cosa che si ha di quel periodo è un atto notarile a cui ci siamo rifatti. Poi ci siamo ispirati a San Francesco, anche se posteriore e poi a Jacopone da Todi. Parlavano Latino?… non credo, o forse sì. Così ci siamo inventati un latino maccheronico, ci si divertiva ad inventare parole inesistenti, ma che ci stessero bene… abbiamo lavorato molto anche sui dialetti, noi eravamo specializzati in questo”.
Il produttore Mario Cecchi Gori rimase assai perplesso da questa novità, sostenendo che il film non sarebbe stato compreso da nessuno, ma gli autori la ebbero vinta e paradossalmente furono proprio i più giovani, gli adolescenti, ad apprezzare e fare propria la neolingua che la loro fantasia si era inventata. Per il seguito, Brancaleone alle Crociate, il cast viene arricchito da giovani attori più noti sul piccolo schermo: a Paolo Villaggio, in uno dei suoi primissimi ruoli al cinema e sicuramente in quello più importante, viene affidato un personaggio teutonico, l’alemanno Thorz, che richiama alla memoria il professor Kranz “tetesco di Cermania”, prestigiatore cialtrone, creato dal comico genovese per il programma Quelli della domenica e di cui all’epoca tutti conoscono il tormentone “chi fiene voi atesso?”. Un altro personaggio televisivo “regionale”, il veneto Nino Toffolo, ottiene la parte di Panigotto e inizia una carriera cinematografica che porterà avanti per un pezzo in contemporanea a quella cabarettistica.
Arriva poi un talento non ancora trentenne, Gigi Proietti, a cui vengono assegnati ben 3 ruoli (per quanto due solo vocali): il penitente Pattume, lo stilita Colombino e La Morte, riferimento ironico (ma non esplicito o intenzionale, stando a Monicelli) al Settimo sigillo di Ingmar Bergman. Nel cast ci sono poi il grande caratterista Adolfo Celi (re Boemondo), Stefania Sandrelli (la strega Tiburzia), Beba Loncar (Berta D’Avignone), Gianrico Tedeschi (l’eremita Pantaleo) e - al suo debutto cinematografico nel ruolo di Zenone - il vocalist dei Rokes, Shel Shapiro. Un cast composito per provenienza ed esperienza, che però funziona e riesce nella non semplice impresa di non far rimpiangere l’originale. Il film viene girato in Lazio e Toscana, nella città fantasma di Monterano (Viterbo) col celebre acquedotto, nel senese e sul lago di Vico. A contribuire al suo successo, ancora una volta, la colonna sonora del maestro Carlo Rustichelli, che aggiunge altri brani alla celeherrima Marcia dei titoli di testa di entrambi i film, sempre con le fantastiche animazioni di Emanuele Luzzati e Giulio Gianini. In poche parole, l’eccellenza artistica di un paese al servizio di un film di puro intrattenimento: forse era anche questo il segreto del successo di un cinema che oggi appare difficilmente riproducibile. E adesso tutti in coro, Branca Branca Branca…
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