Mentre inizia a sparare contro gli adolescenti terrorizzati sull’isola di Utøya, l’Anders Behring Breivik interpretato dal norvegese Anders Danielsen Lie gli annuncia che stanno per morire, colpevoli di essere “marxisti, liberali, membri dell’élite.”
E qui, già dopo pochi minuti di film sono chiare numerose cose su questo film di Paul Greengrass.
Se quello che Erik Poppe ha girato poco prima di Greengrass sullo stesso terribile evento (qui la recensione di quel Utøya 22. juli) era tutto durante la strage, questo racconta soprattutto il dopo (l’arresto di Breivik arriva al minuto trentuno, e le oltre due ore restanti sono occupate dalla ricaduta del gesto, dal processo); li Breivik era praticamente invisibile, qui un protagonista; lì si partiva dall’impossibilità di comprendere, qui si cerca costantemente di illustrare, e di spiegare.
Quelle parole, allora, risuonano assieme a tutte le altre che arriveranno dopo, e che raccontano con chiarezza, a volte metaforicamente, a volte letteralmente, di cosa parli davvero questo 22 luglio: non solo di una strage che ha lasciato un paese ferito, una ferita dalla quale ci si sta ancora riprendendo, ma anche di come quel fatto terribile ed eclatante sia stato la spia che avvisava l’Europa tutta della forza della montante ondata di populismo di destra che ci ha travolti, e che si è nutrita della rabbia e della paura delle popolazioni che non sapevano come reagire alla crisi economica (che pure in Norvegia si è sentita molto meno che da noi) e all’impatto con l’immigrazione e una società multiculturale (che pure in Norvegia hanno saputo assorbire molto meglio che da noi).
Greengrass si preoccupa di spiegare attentamente tutto questo; e come tutto questo rischi costantemente di mettere in crisi i valori storici della democrazia, e le basi fondamentali di ogni stato di diritto, attraverso le polemiche legate al processo di Breivik, alla figura del suo avvocato Geir Lippestad, alle reazioni delle famiglie e dei sopravvissuti.
Di uno in particolare, Viljar Hanssen, 22 luglio segue le vicende, facendo della sua storia personale il simbolo dello stato d’animo di tutto un paese che viene ferito in maniera orribile, sopravvive, ma deve imparare di nuovo a vivere, e a capire come conciliare dolore, paura e rabbia con i suoi principi e le sue speranze.
Il problema di 22 luglio, però, sta proprio in questa costante voglia di spiegare, di simboleggiare, di rimandare a una dimensione più generale.
Quasi un po’ impacciato quando deve confrontarsi con dimensioni quotidiane, familiari o riflessive, Greengrass finisce col girare un film un po’ ovvio, un po’ piatto, un po’ troppo televisivo. La sua attenzione filologica è grande, meritevole il fatto di essersi andato a cercare un cast tutto norvegese, ma allora non si capisce perché allora il film lo abbia voluto girare in inglese.
Forse proprio per questa sua ansia esplicativa, per questa sua voglia di fare di 22 luglio un racconto il più possibile universale: una parola che però può fare rischiosamente rima con banale.
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