lunedì 21 dicembre 2020

La stanza: un thriller psicologico che "applica gli schemi del cinema di genere all'introspezione familiare".

C’è una donna. Ha il trucco sfatto dal piangere, con buttato addosso l’abito con cui si è sposata, e che è alla finestra della villetta isolata dove abita, e sta per buttarsi giù. Sul letto, una lettera addolorata e accorata al suo unico figlio.
Poi suonano alla porta, e la donna, per riflesso, va ad aprire.
Apre a un uomo che sostiene di aver prenotato la stanza che non affittano da tempo, lei e suo marito, un marito che non c’è, ma che arriverà, mentre quell’unico figlio che hanno è chiuso, come sempre, nella sua stanza.
E l’uomo cui la donna apre la porta è misterioso, e inquietante, e sembra sapere tante cose sul passato della donna, e di suo marito; e quando anche questo marito arriverà, finalmente, saranno messi, marito e moglie (che poi sono Edoardo Pesce e Camilla Filippi), di fronte alle verità di quest’uomo misterioso (che poi è Guido Caprino), e alle colpe del loro passato.
Non si può dire altro, di La stanza. Il rischio è quello dello spoiler.
Ma a rischio di fare spoiler va detto che è un film che parla di famiglia, di genitori e di figli, e che lo fa secondo le regole del cinema di genere. Quel cinema di genere che il regista Stefano Lodovichi, che ha pure scritto il copione assieme a Francesco Agostini e Filippo Gili, ama e con cui è cresciuto.
“Sono nato nell'83, e sono cresciuto con una mamma che mi faceva vedere la commedia all'italiana e un padre che mi proponeva il cinema d’azione hollywoodiano degli Stallone, degli Schwarzenegger, dei Willis,” racconta Lodovichi. “E così sono venuto fuori una specie di Frankenstein cinematografico, come tanti altri registi della mia generazione. Amo il genere perché amo fare film che mi divertano, commuovano e emozionino, e dal cinema di genere - che qui, prima ancora che l’horror, è il thriller psicologico, e un certo genere di fantascienza - o preso schemi narrativi preesistenti che ho applicato all’introspezione familiare. Senza mai dimenticare l’intrattenimento, che  è quello che mi sta più a cuore.”

La stanza è tutto ambientato dentro la casa abitata dalla donna e da suo figlio. “Volevamo ambientare il racconto in luogo isolato, e quindi c’era bisogno di una villa indipendente, che abbiamo interamente ricostruito a Roma, negli studi della Videa, perché volevamo caratterizzare ogni ambiente in modo simbolico e tematico, inserire sfumature e dettagli nascosti qui e lì,” spiega il regista. La casa del film guarda dichiaratamente a modelli artistici europei, al liberty e all’art nouveau, mentre i riferimenti che Lodovichi cita come modelli cinematografici sono “Psycho, Shining, i film di Shyamalan: ho riferimenti americani. Potrei citare anche Haneke, ma per me è troppo freddo e cerebrale. Io amo Spielberg, le storie di personaggi che scoprono cose e che si emozionano. Da che mondo è molto,” continua il regista, “la casa al cinema è un archetipo, un luogo esemplare nel quale entrare per scoprire i segreti, gli incubi e le inquietudini di chi la abita. L’ho fatto anche io, e volevo farlo di giorno, perché se è vero che gli incubi arrivano di notte, il problema è quando rimangono con noi anche di giorno.”

Per strano che possa sembrare - ma, vedendo il film, che sarà disponibile in streaming in esclusiva su Amazon Prime Video dal 4 gennaio, tutto diverrà più chiaro - La stanza nasce da un progetto di documentario che Lodovichi non ha avuto il tempo di portare a compimento. “Era un documentario sugli hikikomori sul quale avevo lavorato per più di un anno,” dice. “Mi sono però reso conto che la complessità dell’argomento mi averebbe richiesto del tempo che non potevo dedicargli, e allora sono partito da quel tema, quello dei giovani che si autorecludono nella loro camera, per farne un film di finzione.”
La reclusione volontaria, spiega il regista, “significa tante cose: depressione, incapacità di confronto con un mondo esterno che frantuma l’idea di sé che hanno i ragazzi. Gli hikikomori non non sopravvivono a questo scontro e si chiudono nel loro mondo sempre più piccolo. E siccome non si può parlare di queste cose senza parlare dei genitori di questi ragazzi, in questo film c’era la voglia di raccontare una famiglia di oggi, che poi è quello che ho sempre fatto con i miei film.” Ma se con i precedenti Aquadro e In fondo al bosco Lodovichi aveva adottato il punto di vista dei figli, qui, dice, “ho voluto andare oltre, esplorare la difficoltà di diventare adulto, grande, e genitore. Da quando vivo in una famiglia con figli, sebbene non siano figli miei, ho capito quanto sia difficile essere padre, o figura paterna, e provare a educare un figlio. E ho anche capito come molte delle cose di cui accusavo i miei genitori, gli errori che pensavo avessero commesso, andavano rilette con gli occhi di un adulto, e che dovevo imparare a perdonare.”

Parlare di isolamento in questi mesi di isolamento forzato per molti di noi spinge anche Lodovichi a una riflessione, e a esprimere il timore che questo isolamento possa danneggiare proprio i più giovani: “Noi ci siamo educati alla vita sociale, a uscire e giocare a pallone con gli amici, o ad andare al cinema,” dice. “Quello era il nostro automatismo. Oggi per i ragazzi più giovani l’automatismo rischia di diventare quello di rimanere chiusi in casa, e di spostare tutta la loro attenzione verso un mondo virtuale che si tramuta in un impigrimento mentale, culturale e intellettuale.”



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