sabato 22 luglio 2023

Gianfranco Cabiddu si racconta: la maledizione del rock, l’isola come luogo delle idee, Creuza de mà 17

Anche se è arrivato alla 17esima edizione, Creuza de Mà è diventato uno dei nostri appuntamenti obbligati a partire dal 2019, quando abbiamo avuto il piacere di conversare con il direttore Gianfranco Cabiddu seduti al tavolino del bar dove Fabrizio De André aveva scritto prima il singolo e poi l'album che presta il nome al festival, che fin dai suoi inizi ha voluto innescare una riflessione intorno ai temi della musica per il cinema. Creuza de Mà - Musica per il cinema ha il grande pregio di essere un progetto, un detonatore di sinergie. L'isola, che nel nostro caso è l'Isola di San Pietro, favorisce per la sua natura l'incontro, il dialogo e anche il dibattito, perché i musicisti che Cabiddu invita a Carloforte si confrontano tra loro e soprattutto incontrano i ragazzi del Centro Sperimentale di Cinematografia, che grazie all'iniziativa CAMPUS musica e suono per il cinema e per l'audiovisivo, possono mettere in pratica la loro "arte" lavorando alle colonne sonore di cortometraggi realizzati da altri allievi del CSC.

Quest'anno Creuza de Mà - Musica per il Cinema si svolge doppiamente nel nome di De André: per via di una mostra a lui dedicata e anche perché ospite d'onore della manifestazione è Mauro Pagani, che ha collaborato con Faber sia per Creuza de Mà che per Le nuvole, e che oggi riceve la cittadinanza ordinaria di Carloforte, dove farà un concerto a Piazza della Repubblica, che è quella in cui svettano quattro enormi alberi di ficus magnolioide.

Su una terrazza che affaccia sul porto, Gianfranco Cabiddu ci parla di lui, e la sua voce tradisce emozione e giusta soddisfazione: "Questo è un posto con una sua identità" - ci spiega - "e non un luogo turistico. Sono convinto che L'Isola di San Pietro favorisca la creatività. Quest'anno la comunità  di Carloforte darà la cittadinanza onoraria a Mauro Pagani, che è venuto qui con Fabrizio De André, proprio nell'epoca di Creuza de Mà, alla ricerca di un luogo dove poter scrivere e raccontare un album nella lingua genovese mercantile. Già questo riconoscimento, che diamo a un grande musicista durante il festival, 'parla' di una persona che è arrivata qui, ha avuto degli amici, ed è ritornata, ritornata e ritornata, per cui ha un pezzo di vita incastrato nell'isola, e anche Creuza de Mà - Musica per il cinema ha molti incastri nell'isola, a cominciare dalla collaborazione che fin dal primo anno abbiamo con la banda del paese, che raccoglie la musica di qui e accoglie diverse generazioni, e infatti il più piccolo componente ha 11 anni e il più vecchio 81. Quest'anno, poi, Pivio e Aldo De Scalzi hanno riarrangiato il tema di Diabolik per la banda, e la banda suonerà di fronte a loro: sarà un'impresa avventurosa, perché sono pezzi complicati, ma operazioni del genere spiegano il legame tra il festival e Carloforte".

Sono nate altre collaborazioni importanti a Carloforte?

Nei gruppi di ragazzi del CSC che abbiamo portato ogni anno a Carloforte sono nate tante coppie, non amorose ma artistiche. Alcuni hanno trovato il musicista ideale con cui hanno fatto il corto per il progetto CAMPUS e poi anche il corto di diploma e i primi film, e questa è una cosa importante, perché vuol dire che l'atmosfera di quest'isola è propizia per la nascita di sodalizi artistici che danno bei risultati. Io venivo da ragazzo, qui ho scritto dei miei sogni, ho avuto anche delle idee, ed è un luogo in cui mi piace tornare anche d'inverno, perché è pieno di storia. Inoltre, le persone che stanno a Carloforte formano una comunità molto unita.

Tornando a Fabrizio De André, tu lo hai conosciuto?

Ho avuto la fortuna di incontrarlo una volta a Cagliari prima di un suo concerto, abbiamo parlato anche a lungo ed è stato molto gentile e carino. Aveva scritto un brano che si chiamava Disamistade, mentre io avevo girato il mio film d'esordio, sempre intitolato Disamistade e che lui conosceva. L'ho rivisto, tempo dopo, al concerto a Roma al Brancaccio. Mi aveva anche invitato ad andarlo a trovare, ma io non ne ho mai avuto il coraggio e me ne sono pentito per tutta la vita, però ho fatto un documentario su di lui, su De Andrè in Sardegna, perché mi ha incuriosito, dopo il nostro incontro, capire cosa vedesse ogni giorno quest'uomo da casa sua e cosa gli regalasse la Sardegna. Di certo non la considerava un buen retiro, perché Carloforte, lo ripeto, non è un posto dove tu hai la casa al mare. No, qui devi per forza fare la vita che fanno loro.

Com'è cambiato negli ultimi 10 o 20 anni il rapporto fra cinema e musica, o fra cinema e suono?

La tecnologia paradossalmente ha dato al suono una maggiore possibilità di esprimersi all'interno un film, perché con gli ultimi impianti Atmos, o anche col 5 + 1, il trattamento del suono consiste nel far convivere i dialoghi e l'ambiente in cui la storia si svolge con la musica. Non è più come una volta, quando o vinceva la musica o vincevano le parole, e nel secondo caso la musica diventava quasi un sottofondo. Adesso la si può integrare nel racconto, e credo che questo aiuti l'immersione dello spettatore nel film. Il musicista, oggi, cerca di dare al film quel qualcosa in più che non si può esprimere con le parole, il suo è un lavoro sul piano emozionale ed è per questo che è molto importante costruire, fin dalla fase di scrittura della sceneggiatura, un rapporto con il musicista, che deve avere le idee chiare sul suono del film, perché il suono è veicolo di tante emozioni. Una scena, se è accompagnata in un certo modo, suggerisce un mood inspiegabile a parole, e quindi il rapporto tra un regista e un musicista è uno snodo fondamentale per la riuscita di un ottimo prodotto filmico.

Possiamo dire, Gianfranco, che tu sei un ponte fatto di carne e ossa tra il cinema e la musica e che, come Mauro Pagani a un certo punto della sua carriera, hai subito il fascino della musica orientale o arabeggiante?

Sì, lo possiamo dire. Io ho lavorato all'inizio come etnomusicologo, quindi per me il rapporto con le immagini era quasi un rapporto con le immagini in movimento, perché un etnomusicologo vede il gesto che accompagna la musica. Ho studiato moltissimo le culture orientali, quella balinese e quella indiana, ad esempio, dove tutto è mischiato, per cui danza, canto, musica, gesto, parola stanno insieme un po’ come nella nostra opera lirica. Credo che queste suggestioni mi abbiano dato un imprinting che mi è rimasto attaccato addosso  e che mi porta sempre ad avere una visione di insieme.

Anche tu, come Mauro Pagani, ti sei innamorato del progressive rock britannico?

Sì, e mi piaceva talmente tanto che mi ha rovinato la carriera di musicista classico, perché io studiavo musica classica, e quindi flauto, eccetera. Poi sono arrivati i Jethro Tull con il rock e ho cominciato a suonare nei gruppi rock, e quando lo hanno scoperto al conservatorio, mi hanno quasi cacciato via, quindi la mia carriera classica è stata subito traviata. Dopo il rock è arrivato il jazz. Adesso, invece, trovo molto interessante il lavoro che fanno i musicisti nordici, che traggono spunto dai rumori del film, quindi dalla presa diretta.

Chi sono gli autori di colonne sonore che preferisci?

Ognuno ha un suo universo, per cui alla fine mi piace un po’ tutta la musica se è buona. Io sono molto affezionato a Franco Piersanti, non potrei mai fare a meno di lui, ma non perché sia bravo, e bravo lo è certamente, ma perché ha una sensibilità che mi è affine, per cui, se devo lavorare con le immagini, lo chiamo, e so che mi farà anche soffrire per certi versi, però ha quel guizzo che sempre mi stupisce e che mi aiuta, per cui è ovvio che mi rivolga quasi solo a lui. Però ci sono delle cose che fanno Pivio, Aldo De Scalzi e Michele Braga che amo tantissimo.

Pensi che al giorno d'oggi la musica per il cinema sia migliore della musica leggera?

La musica per il cinema è un po’ più elaborata, e poi deve tenere conto del linguaggio del cinema perché è veicolata da un altro medium, per cui bisogna in qualche modo contrattare con il regista. Quella degli autori di colonne sonore è musica applicata a un'altra arte, magari senti che funziona anche da sola, ma poi la vedi ballata da un personaggio e allora capisci che quei suoni hanno una funzione, e che l'interazione con un corpo che la balla dà alle note un’altra profondità. Esistono molti incroci, e anche questo è bello, per esempio adesso in tanti film ci sono le canzoni, che sono un veicolo pazzesco. Il tema di questo festival è un po’ il rapporto fra canzone e colonna sonora, perché a volte nelle colonne sonore ci sono canzoni che si portano dietro la loro storia, e quindi sono come delle macchine del tempo. Se per esempio metti una canzone di Gino Paoli in un film, stai dando un'emozione che è condivisa e compresa dal pubblico. Stai anche dando il segnale di un'epoca, e specialmente se le canzoni sono italiane, le parole fanno parte anche della storia e del film, per cui è sempre difficile utilizzare le canzoni nel cinema, però ultimamente ci sono molti cantanti che compongono colonne sonore per il cinema, ad esempio Colapesce e Dimartino.  

Immagino che per te non ci sia confronto fra la musica degli anni '60 e '70 e le canzonette di oggi…

Proprio così. La cosa incredibile è che in quegli anni là erano uno più bravo dell'altro: i Pink Floyd, i Led Zeppelin, i Genesis: era una cosa straordinaria e ancora oggi certi gruppi mi emozionano. Ho visto da pochissimo i Rolling Stones: sono dei vecchietti ma sono vivi , e un musicista quando è vivo è vivo, anche i vecchi jazzisti hanno sempre quel graffio che non è museo ma è vita. Magari il nostro sbaglio è che facciamo canzoni che non tengono conto della nostra tradizione, quindi siamo un po’ più international ma molto meno radicati.



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