sabato 22 luglio 2023

Mauro Pagani: "Di De André mi manca il senso dell'umorismo. I Maneskin? Si meritano il successo"

Mauro Pagani, polistrumentista, compositore e produttore discografico, è già stato ospite di Creuza de mà per le sue colonne sonore, ma quest'anno la sua presenza sull'Isola di San Pietro ha qualcosa di speciale. Il comune di Carloforte ha voluto infatti dargli la cittadinanza onoraria, e lo ha fatto nel corso di un'edizione del festival dedicato alla musica per il cinema che rende omaggio a Fabrizio de André anche con una mostra. Questa sera, inoltre, nella piazza storica e principale della cittadina, Piazza Vittorio Emanuele II, Pagani si esibirà con una decina di musicisti, e sappiamo già che la scaletta prevede alcuni pezzi di Faber, oltre alla splendida Impressioni di settembre, uno dei brani più celebri della Premiata Forneria Marconi, unica band italiana di progressive rock che ha avuto successo all'estero. Dell'accoglienza riservata al mitico gruppo da parte degli Stati Uniti ci ha raccontato lo stesso Mauro Pagani ieri mattina, sulla terrazza di un hotel vista mare. Con un cappello di paglia color carta da zucchero in testa e il sorriso gentile, il musicista si è seduto a un tavolino di fronte a noi e ha innanzitutto commentato l'onore di essere un nuovo cittadino di Carloforte: "È una grande gioia. Qui mi sento a casa. Ho cominciato a sentirmi a casa la prima volta che sono venuto, nell'85, e da allora sono sempre stato accolto come se quest'isola fosse casa mia. Qui ho alcuni dei miei amici più cari, quindi non potrei essere più felice".

Un'isola vive del suo rapporto con il mare, e Fabrizio De André, con cui ha lavorato, veniva da una città di mare. Lei invece è nato in provincia di Brescia. Che rapporto ha con il mare? Avverte la sua poesia?

Ho sempre desiderato il mare, anche da ragazzo. A sei anni mi sono ammalato e sono stato salvato dal mare. Mi hanno portato al mare e sono guarito. Da allora ho bisogno del mare, e anche il mio concetto di vacanza è legato al mare. Ho provato ad andare in montagna, per fare contenta soprattutto la mia signora che ama molto la montagna, ma io devo stare dove c'è il mare. Sul mare, poi, viaggiano tutte le culture del mondo, si incontrano, si mescolano, e perciò il mare è una specie di crogiolo dove tutto nasce e tutto cresce. Si imparano cose, si vanno a fare figli. Insomma, il mare è un po’ il giardino del mondo.

Gianfranco Cabiddu, direttore di Creuza de mà, ci ha raccontato che il suo folle amore per il rock, soprattutto quello progressivo, ha rovinato la sua carriera di musicista classico. È stato così anche per lei? Com'è avvenuto l'incontro con il progressive rock?

Il primo incontro è avvenuto attraverso i Jethro Tull e poi i King Crimson, che considero i nostri grandi maestri. Noi partivamo da una cultura rock che non era proprio nostra. L'avevamo importata, la studiavamo, cercavamo di apprendere cose, però non si imparava seguendo gli americani o gli inglesi se non per la loro componente pop. Pensi che all'inizio i Beatles sono stati confusi con un'esperienza pop, cosa che non erano assolutamente, visto che stavano reinventando la musica leggera. Anche i Genesis con Trespass, il loro primo album, sono stati fondamentali per me, e il bello è stato che di colpo noi italiani ci siamo trovati su un terreno familiare, perché per la prima volta la musica che suonavamo non era basata sul linguaggio blues e rock, ma conteneva la musica popolare e la musica classica. C'era tutto! E questa cosa, per noi italiani che avevamo studiato e avevamo imparato a suonare studiando la musica classica, con il solfeggio e tutto il resto, è stata meravigliosa, tanto che possiamo dire che il progressive rock ha coinciso con l’unico momento in cui abbiamo trovato ospitalità e amore da parte della cultura del rock del mondo intero.

Che poi è quello che sta succedendo oggi ai Måneskin

Io sono molto felice per i Måneskin, per la loro storia. Si sono meritati tutto ciò che stanno avendo. In più sono stati anche fortunati, e questo è molto importante. Bisogna essere belli e fortunati, anzi: belli, bravi e fortunati.

Cosa risponde a chi dice che non ci sono più i frontman di una volta?

Rispondo che i frontman di ieri cominciano un po’ a perdere colpi. Va bene tutto, siamo tutti molto buoni e generosi con tutti, con i Rolling Stones ad esempio, però meno male che ci sono le nuove leve. Io credo che invecchiare insieme al proprio pubblico vada bene fino a un certo punto, però dopo un po’ è meglio andare a pescare, giusto? Si prendono ancora i pesci. Lo ripeto, sono molto contento per i Måneskin, però mi piace ricordare che io ho fatto con la PFM più di 170 concerti in America, di cui nessuno per il circuito degli italoamericani. Ho fatto 170 concerti in giro per gli Stati Uniti per il pubblico americano, poi abbiamo fatto un disco troppo duro nei confronti degli States, Chocolate Kings, e lo abbiamo fatto anche nell'anno del bicentenario, e devo ammettere che il momento storico era il meno adatto per prendersela con loro. Non mi pento di nulla, però è uno scotto che abbiamo pagato. In ogni modo, all'inizio l'America ci ha accolto a braccia aperte ed è stato meraviglioso per noi. Certo le proporzioni attuali del successo dei Måneskin ci superano, ma mi piace ricordare che i primi siamo stati noi.

Voi avete trasformato in canzoni le suggestioni di una generazione intera, che voleva conquistare il mondo ed era animata da grandi speranze. Era un'epoca in cui si poteva ancora sognare…

Vero. Io dico sempre che il giorno più triste della mia vita è stato un giorno dei primi anni '70 in cui mi sono svegliato e mi sono reso conto che, da vivo, non avrei visto un mondo migliore di questo. Ho realizzato che uno dei grandi sogni, dei grandi motori della mia gioventù, stava perdendo significato. Purtroppo avevo ragione, nel senso che il mondo sembra peggiorare sempre di più invece di migliorare.

L'incontro e il lavoro con Fabrizio De André le ha permesso in qualche modo di ritrovare un senso, una spinta ad andare avanti?

In un certo modo sì. La grandezza di De André stava nella sua capacità di osservare le cose. Guardava le cose e le persone, e riusciva a raccontarle sempre in modo diverso, un modo originale e tutto suo. Sapeva guardare il mondo ed era molto intelligente, e lavorare con le persone intelligenti è tutta un'altra cosa.

Che rapporto avevate?

Abbiamo collaborato per 14 anni. Con Fabrizio ci rispettavamo. A un certo punto mi aveva detto che ero l'unica persona di cui si fidasse. Per me è stato un grande onore ma anche una grossa responsabilità, perché quando chi ti dà questo ruolo ha un caratteraccio come Fabrizio, quando butta male, butta male proprio. Però Fabrizio era capace di regalare momenti divertenti. La cosa che mi manca di più di lui è il senso dell'umorismo. Era un uomo speciale.

Il regista per cui ha scritto più colonne sonore è Gabriele Salvatores, uno degli autori più eclettici che ci siano, uno che rischia, che tenta sempre generi diversi. Come si lavora con lui?

La cosa fantastica di Gabriele Salvatores è che lui è un musicista. Suona la chitarra, ma non lo comunica in giro, però gli piace suonare e sa suonare bene, è bravo e suggerisce sempre cose intelligenti. Ti dice: "Mi piacerebbe una cosa così, ho ascoltato questo pezzo, ascoltalo", e tu magari segui le sue direttive, ci metti del tuo e lui ascolta, ti rispetta e si fa sorprendere. Lavorare con persone come lui rende la vita più bella.

Lo scorso anno lei ha scritto Nove vite e dieci blues. Un'autobiografia. Cosa ha significato ripercorrere la sua carriera?

Tre anni e mezzo fa, una mattina, mentre ero a casa, ho cominciato a vedere dei pezzi del campo visivo che si spostavano e ho pensato: è meglio che vado in ospedale a farmi dare un'occhiata, Sono stato fortunato, perché la fase acuta del mio problema l'ho avuta in ospedale, quindi mi hanno potuto curare nel modo migliore. Ho trascorso due mesi in ospedale, quindi non è stata una robetta, però, quando ho cominciato a risvegliarmi, mi sono reso conto che anche la mia memoria aveva perso dei pezzi, cose sparse, e quindi il libro è il risultato di una ricerca nella mia memoria, una rivisitazione delle cose che mi sono successe. Mi sono messo ad ascoltare i dischi che avevo registrato e a rileggere i libri che leggevo da ragazzo. Chiamavo gli amici e dicevo: "Quella roba lì come è successa? Cosa ho fatto? Piano piano il mio stratagemma ha funzionato e la memoria è tornata. Nove vite e dieci blues è un libro a cui voglio bene, anche perché a un certo punto mi sono detto: "Ma quante cose ho fatto!". È che io ho sempre lavorato tanto, mi piace lavorare, sennò mi annoio. Adesso lavoro un po’ meno, ma me lo sono meritato, lei che dice? Amo il mio lavoro, faccio molte colonne sonore di film ed è bello perché preparare una colonna sonora vuol dire lavorare sulle musiche ma essere anche liberi in qualche modo. Se lavori solo con i cantanti, sei legato al mercato e alle mode, e io faccio sempre più fatica, anche perché questo è un periodo nel quale sia le mode che il mercato non mi coinvolgono più di tanto, e quindi la musica da film mi aiuta a mantenere un bel rapporto con la mia creatività.

La foto in cima all'articolo è di Florio Rizza



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