Se Pete "Maverick" Mitchell/Tom Cruise ha salvato il boxoffice USA (e non solo) con i Ray Ban a goccia, un aereo Darkstar e una moto che sfreccia verso il tramonto, a rendere evidente che anche in Italia l'allungamento della stagione cinematografica è possibile ci sta pensando Barbie, che continua a registrare incassi da capogiro. E infatti il guadagno totale del film ammonta a più di 18 milioni di Euro, mentre nell'intero globo terraqueo siamo arrivati a quasi 800 milioni di dollari. Forse alla Warner Bros. non si aspettavano un risultato simile, anche se la strepitosa campagna pubblicitaria in cui la major ha investito non poteva non dare buoni frutti, e tuttavia non era scontato che il titolo di punta di una fra le più importanti case di distribuzione si rivelasse una tale miniera d'oro.
Il fatto è che Barbie, costato 140 milioni di dollari, si è imposto fin dal principio come un fenomeno di costume, e dunque bisogna averlo visto per poter dire: "Io c'ero!" e avere voce in capitolo nel dibattito: difendendo il film a spada tratta in quanto celebrazione del girl power e invito alla sorellanza, oppure definendolo "il compitino autocompiaciuto di una regista che è un inattaccabile bluff".
Quale che sia la giusta interpretazione, sedersi su una poltrona davanti a Margot Robbie e Ryan Gosling non è più soltanto comprare un biglietto, entrare in una sala e perdersi in una storia. No, la visione di Barbie è un happening, un evento, una liturgia, un rito. Si comincia con la scelta della sala, che dev'essere spaziosa, e va da sé che è meglio optare per la versione originale, perché è un reato perdersi Ryan Gosling/Ken che fa la voce da stupido e ridendo quasi squittisce. Per Greta Gerwig è un mix di Marlon Brando, John Barrymore, Gene Wilder e John Travolta. A noi ricorda piuttosto Brad Pitt in Burn After Reading. Barbie, dunque, necessita di una degna fruizione e di un altrettanto degno ascolto. E poi Barbie non è un'esperienza da vivere da soli. Meglio portare la mamma, la nonna, la figlia dagli 8 anni in su, l'amica del cuore o un gruppo di amiche. Mai andare con il fidanzato o il marito, per carità, se si vuole evitare di litigare sulla via del ritorno. Noi abbiamo avuto la fortuna di gustare il film della Gerwig nella sala 5 del Cinema Barberini di Roma (quella verde con i divani) e di notare che quasi tutte le donne avevano indosso qualcosa di rosa shocking. Una ragazza sfoggiava addirittura un tutù interamente di tulle e scarpe con la zeppa quasi identiche a quelle che porta Margot Robbie a metà film. E il bello è che non c'è una Chiara Ferragni dietro a questo dress code. Più semplicemente, le donne non hanno resistito alla tentazione di tirare fuori dall'armadio e dai cassetti tutti i capi d'abbigliamento e gli accessori delle più disparate tonalità di rosa. Nessuno immaginava di averne tanti.
Da ciò che abbiamo letto e sentito, anche le bambine che hanno visto Barbie hanno scelto l'outfit intonato al film, e questo perché la Gerwig, quando ha pensato ai costumi e alle scenografie, ha voluto celebrare la Greta di 8 anni, che più una cosa era brillante, chiassosa e luccicante , più la voleva, e se insieme alle bimbe e alle ragazze, il film lo hanno visto anche le donne adulte e qualche anziana signora, è perché Greta Gerwig e Noah Baumbach (co-autore della sceneggiatura) hanno voluto fare un film per tutti. Ecco perché qualcuno potrebbe trovare Barbie un po’ didascalico, specialmente nella seconda parte, ma la regista ci teneva a far arrivare il suo messaggio anche alle giovanissime. Quanto alle donne che hanno fatto il ’68, di certo ritroveranno, nei bambolotti realizzati a immagine e somiglianza di neonati da cullare, quei giocattoli così anni Cinquanta contro cui si scagliava il libro Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belotti, fondamentale indagine sull'identità sessuale femminile come frutto dell'educazione sociale.
Greta Gerwig ha 39 anni e negli anni ’70 non era nata, ma al suo ingresso nel mondo dello showbusiness si sarà senza dubbio resa conto che "tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri", come scriveva George Orwell, e allora ha cominciato a percorrere la strada del cinema indipendente, perché quello degli Studios non le sembrava il sentiero di mattoni gialli su cui Dorothy si incammina per arrivare a Oz, ma un universo in cui ai posti di comando c'erano gli uomini. Per fortuna, qualcosa è cambiato, per dirla con Jack Nicholson, ed è accaduto dopo il #MeToo, tanto che, all'inizio di Barbie, Barbieland è uno “stato” matriarcale, e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che i vari Ken sono scemo e più scemo e più scemo e più scemo e così via, e la regista non credeva ai suoi occhi quando la Warner Bros. le ha dato carta bianca.
A Barbieland ogni sera è sempre una girls' night e Ken riesce a dare un senso alle proprie giornate in spiaggia solo se Barbie lo saluta. Ricordiamoci però che l'universo in cui le bambole della Mattel sono ai posti di comando, e che la regista chiama "un generatore di dopamina", è finto. Le barbie non bevono, non mangiano, non si riproducono e in più sono controllate a vista dai signori della Mattel che stanno nel mondo reale, e perciò, più che l'Isola di Lemno, Barbieland è un piccolo Truman Show simile alla scala che porta al paradiso della canzone Stairways to Heaven, solo che al posto della donna che potrebbe seguire il pifferaio invece di assecondare il suo desiderio di ricchezza, c’è una bambola che all’improvviso piange pensando alla morte.
Non vogliamo guastare l’effetto sorpresa e quindi eviteremo spoiler, ma lasciateci dire che nel mondo reale la società è patriarcale, e che Barbie ci resta malissimo, perché all’origine del giocattolo e delle sue infinite varianti c’era l’idea di rendere giustizia alla complessità della donna e al suo diritto di lavorare, di occupare posizioni di potere e di non pensare prima di tutto a fare bambini, e infatti nel film veniamo a sapere che Barbie incinta è stata subito tolta dal mercato perché impopolare. Prima di Barbie, alle bambine venivano regalate piccole tavole da stiro, mini forni in cui cuocere tortine e altri elettrodomestici, oppure semplici oggetti che sottolineavano l'importanza della cura della casa. Anche se la prima barbie è del 1959, ancora fino alla fine degli anni ’70, le bimbe venivano instradate verso un avvenire da casalinga o comunque da angelo del focolare. Le barbie, invece, ci insegnavano (e ci insegnano) che potevamo essere sexy, indipendenti, e audaci, ma soprattutto felici anche senza formare una famiglia, e in questo Barbie/Margot Robbie non è affatto lontana dalla Josephine March di Piccole donne, e se Jo ci suggeriva che l’arte, nella forma della scrittura, poteva essere appannaggio del gentil sesso, Barbie si spinge oltre, riservando alle donne grinta e premi Nobel, e nel film c'è pesino una Barbie Proust, con tanto di "intermittenze del cuore".
Come in Piccole Donne, che la Gerwig ritiene un film "intimo", così in Barbie l’emancipazione femminile passa attraverso la dolcezza. Ciò non toglie che il film sia, per le girls che lo vanno a vedere, uno specchio in cui riflettere la propria immagine di creature multitasking, che non devono essere né troppo né troppo poco in ogni ambito possibile e immaginabile. Lo dice chiaramente il personaggio di America Ferrera, e ieri sera diverse donne che erano al cinema con noi hanno applaudito il suo monologo. Sorridevano tutte, le spettatrici della sala Atmos del Barberini, mentre gli uomini avevano l'aria contrariata o perplessa. Una volta che si sono riaccese le luci dopo i fantastici titoli di coda, ci è capitato di notare, in ultima fila, una decina di ragazzi che discutevano sul film, scaldandosi parecchio. Certo, gli uomini non fanno una bella figura in Barbie: sono ottusi, idioti, competitivi e non riescono a fare più di una cosa per volta. Per loro non c’è spazio per una redenzione vera e propria, anche se capiscono che la fragilità non è una caratteristica di cui vergognarsi. La fragilità, a pensarci bene, può anche essere sexy: basta guardare gli addominali di Ken.
Tornando a casa dalla visione di Barbie, abbiamo pensato che le donne si sono trasformate, che sono diventate più consapevoli della loro intelligenza e quindi più sicure di sé, e più autorevoli. Ovviamente sono determinanti il carattere e il paese di appartenenza, ma sarebbe davvero bello se Barbie assurgesse a simbolo di una nuova forma di emancipazione, di una battaglia mondiale per essere considerate uguali agli uomini. Barbie, e questo è sicuro, è un film-manifesto, un tazebao dalle tonalità pastello al quale dobbiamo pensare quando ci lasciamo inghiottire in una relazione tossica se non addirittura violenta. Sarebbe meraviglioso se Barbie, che sta facendo mangiare polvere al settimo Mission:Impossible, diventasse il maggiore incasso non solo del 2023 ma di tutti i tempi. Se dovesse succedere, allora significa non che “le streghe son tornate”, ma che siamo unite e agguerrite come non mai e che non permetteremo più a nessuno di dirci: "Stai zitta, cretina".