martedì 27 ottobre 2020

I cinema chiusi sono la morte della speranza

Riflettevo come molti, in questi giorni bui, su queste parole del regista Marco Bellocchio in merito alla nuova chiusura dei cinema:

“Durante la Seconda guerra mondiale il cinema non si è fermato, anche sotto le bombe le persone hanno continuato ad andare in sala. Il cinema è un bene primario e un grande simbolo, una possibilità di sogno e di speranza”.

Non solo è verissimo, ma aggiungerei anche che i cinema erano aperti e proiettavano musical scintillanti e meravigliosi e film di mostri durante gli anni della Grande Depressione in America e che la gente andando al cinema a vedere Gold Diggers of 1933 (La danza delle luci) di Mervyn LeRoy non solo si appassionava alla storia d'amore di Ruby Keeler e Dick Powell, ma vedeva rappresentato dalle coreografie di Busby Berkeley il dramma dei reduci di guerra e delle donne costrette dalla miseria a prostituirsi in un numero indimenticabile come Remember My Forgotten Man. Erano gli anni dei film della RKO, di Ginger Rogers e Fred Astaire, un'epoca indimenticabile del cinema americano, che alla gente dava speranza e fiducia, un sentimento sintetizzato mirabilmente nel 1946, dopo il dramma della Seconda Guerra Mondiale, da La vita è meravigliosa di Frank Capra. E durante le guerre i palcoscenici dei teatri mondiali e italiani ospitavano il genio di talenti comici come i fratelli Marx, Totò, i varietà e le soubrettes, i comici e i fantasisti, la grande prosa... L'arte è sempre stata e sempre sarà la più grande consolatrice dell'animo umano. In questo senso la commedia sta sullo stesso piano del dramma realistico, il cinecomic del film intimista. Ognuno ha il suo modo di affrontare le difficoltà della vita.

Ci spaventa la chiusura delle porte degli unici luoghi in cui ancora ci si poteva ritrovare in sicurezza, sia pure mascherati e a distanza, per assistere a storie che qualcuno ha scelto di raccontarci, per commuoverci, ridere, spaventarci insieme e dimenticarsi per un paio d'ore di quel che sta accadendo, delle nostre legittime paure per il futuro e dei problemi contingenti. Assistere a una rappresentazione teatrale o cinematografica è vivere un'altra vita e farlo in una sala che, come un luogo di culto (a proposito...) raccoglie persone diverse che però credono nel valore di una forma di spettacolo che può farli sentire migliori o peggiori, in ogni caso diversi. Chiudere sia pure per un mese (speriamo) queste cattedrali dell'animo umano non servirà a contenere il diffondersi dell'infezione che il liberi tutti di questa estate ha scatenato. Darà solo un'altra mazzata a chi i film continua a produrli e a girarli in sicurezza nonostante tutto, senza sapere quando potremo vederli, alle maestranze, ai distributori che li hanno acquistati, a chi allestisce le opere teatrali, agli attori, a chi nel cinema e nel teatro lavora e perfino a noi giornalisti che ce ne interessiamo da sempre con passione.

Si è detto in passato che “la cultura non si mangia”, come se l'uomo fosse teso solo al soddisfacimento dei bisogni primari alla pari di qualsiasi altro animale. E oggi, non appena se n'è avuta occasione, non si è presa nemmeno minimamente in considerazione una misura alternativa come, ad esempio, far terminare l'ultimo spettacolo alle 22, dimostrando quanto sia ormai introiettata questa vergognosa idea che da troppo tempo politici e personaggi senza dignità propugnano dagli scranni su cui sciaguratamente sono stati messi. Dispiace sentire il ministro Dario Franceschini – che avevamo lodato al tempo della legge sul cinema da lui proposta – sostenere che chi si lamenta per la chiusura di cinema e teatri non si rende conto della situazione. No, è esattamente il contrario, caro signor ministro, non si tratta solo della sterile difesa di corporativismi di settore. Parliamo di questi ambiti che ben conosciamo, ma il cuore ci duole anche per tutte le altre attività messe in ginocchio dall'epidemia, che magari rispettavano le regole ma sono state punite assieme a chi non lo ha mai fatto in mancanza di controlli efficaci, nella tipica e vigliacca pratica italiana di “colpirne cento per educarne uno”. Noi ci rendiamo conto benissimo della situazione in cui versiamo, e speriamo di uscirne vivi. Ma uccidere la speranza che la cultura e lo spettacolo - cinema, teatro, musica, lirica, danza - da sempre danno all'uomo in tempi disperati non è la degna risposta di un paese che tutto il mondo ama proprio per la sua arte.



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