Chissà come sarebbe stato John Belushi a 70 anni. Chissà se sarebbe stato simile all’adorabile vecchietto canuto che in un celebre sketch del Saturday Night Live visita al cimitero le tombe dei colleghi scomparsi, a cui è sopravvissuto, per poi spiegare il segreto della sua longevità, con un improvviso luccichio negli occhi, col fatto che è un ballerino, e scatenarsi in un fantastico balletto. Chissà come sarebbe stato Ghostbusters con lui, chissà quali altri film avrebbe interpretato nella sua maturità, chissà se… ma è un gioco sterile, purtroppo, non lo sapremo mai: come sempre in questi casi, dobbiamo farci bastare il molto che è riuscito a darci nel poco tempo in cui l’abbiamo avuto. Di lui scrivevamo in questo articolo sette anni fa, in occasione dei 30 anni dalla sua scomparsa, e ne abbiamo scritto tante altre di quelle volte che ormai nemmeno le ricordiamo più.
Con Belushi – è ormai perfino banale dirlo - se ne andò per sempre la parte più geniale, anarchica e beffarda della comicità americana, riassunta nella limitata e superficiale definizione di demenziale. La sua morte per overdose fu uno shock epocale. L’avevo visto la prima volta al cinema in Animal House (di cui qui ricordavamo il quarantesimo anniversario) e ne rimasi letteralmente folgorata, come milioni di persone in tutto il mondo, poi lo ritrovai (in un ruolo breve quanto spassoso) in 1941 - Allarme a Hollywood, la (ingiustamente) vituperata satira di Steven Spielberg della fobia post Pearl Harbour, seguito dall’apoteosi del mitico The Blues Brothers e dal malinconico, inatteso e bellissimo Chiamami aquila, dove interpretava un personaggio di reporter di cui ci si poteva davvero innamorare.
Finì tutto con I vicini di casa, sul cui set lui e l'amico Dan Aykroyd avevano sofferto le pene dell’inferno, odiandone ogni minuto, trovandosi sempre in contrasto con le scelte del regista John Avildsen. Certo, il film avrebbe potuto essere migliore, ma la sua interpretazione del quarantenne dimesso e represso, travolto dai due folli e sensuali vicini, era perfetta. Ricordo di aver letteralmente consumato, dopo la sua morte, il VHS di The Best of John Belushi, una compilation dei suoi meravigliosi personaggi al Saturday Night Live, l’unica che in quegli anni si trovasse in Italia, e di aver visto, letto e raccolto in seguito tutto quello che si poteva trovare su di lui. Ho tradotto un documentario sulla sua vita, anni fa, e sulla parete del mio soggiorno campeggia un "quadrito", opera di Brunella Tegas, una specie di ex voto a lui dedicato, con la foto segnaletica di Jake Blues. Insomma, l’ho amato davvero molto e non per modo di dire.
Quella di John Belushi è stata una vita consumata in fretta, ad una velocità accelerata rispetto al resto del mondo: più che una candela bruciata da entrambe le estremità, era simile a un candelotto di dinamite dalla miccia corta, a uno spettacolo pirotecnico affascinante e meraviglioso, destinato a spegnersi con un ultimo bang. Se ne andò per sempre a 33 anni il 5 marzo 1982, nel bungalow numero 3 dello Chateau Marmont di Los Angeles, dove si stordiva di alcool e coca in party ininterrotti, fino a perdere coscienza, anche per dimenticare l’insoddisfazione per la piega che aveva preso la sua carriera, la frustrazione per gli stupidi produttori che non ascoltavano le sue idee e non gli facevano fare i film che meritava.
A questo proposito in rete c’è una piccola grande perla: a Hollywood, lontano dalla sua amatissima moglie Judy, da Dan Aykroyd, da tutti coloro che lo amavano e che avevano cercato invano e in tutti i modi di tenere questo dolce ragazzotto dell’Illinois lontano dalla droga, John non era andato per sballarsi, inizialmente. Fino a due mesi prima di morire stava lavorando al copione di una commedia gialla sulla viticultura, Noble Rot (la Muffa grigia che rende in alcuni casi i vini più pregiati), assieme al suo collega del Saturday Night Live Don Novello, e ne era piuttosto contento. Il suo personaggio si chiamava Johnny Glorioso. Ma alla Paramount non piaceva e insistevano perché interpretasse The Joy of Sex, una sciocca commediola su verginità e college, diretta dall’amica Penny Marshall (che poi si farà nel 1984 con la regia di Martha Coolidge, intitolato in italiano Non toccate le ragazze). Se volete leggere la sceneggiatura, ovviamente non definitiva, qua potete trovarne un riassunto e perfino scaricarla.
Anche se lo era, di certo non ricorderemo mai John Belushi come un tossicodipendente, ma come uno di quei personaggi vivi, elettrizzanti, meravigliosi, che nascono troppo raramente, sembrano sbucati dal nulla, mostrano il loro straordinario talento al mondo, si fanno voler bene con la loro generosità e la loro capacità di farci ridere, sognare, credere. E poi ci lasciano orfani all’improvviso, creando un vuoto che nessun altro artista, per quanto bravo, potrà mai colmare. Oggi però bando alla tristezza: alziamo i calici per festeggiare i 70 anni che John Belushi, giovane e libero per sempre, non ha compiuto, e spariamoci una maratona dei suoi film e dei suoi sketch, magari partendo da Verso il Sud, il western di e con Jack Nicholson, che non conosciamo a memoria come gli altri. È stato un privilegio vivere nella stessa epoca dell’uomo che ci ha regalato Bluto Blutarsky, Bill Kelso, Jake Blues, Earnie Souchack, Earl Keese e l’immortale gioia della risata che seppellirà gli imbecilli e i nazisti dell’Illinois di tutto il mondo.
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