Bisogna essere lineari, che parlando di Lynch è un paradosso, e partire dall’inizio: da quell’incipit folgorante, allora come oggi, in cui si alternano rose rosse, tulipani gialli e villette a schiera, in cui il camion dei pompieri passa al rallentatore mentre a bordo salutano sorridendo, dove tutto è pace, armonia, odore di torte di mele messe a raffreddare sul davanzale e poi all'improvviso qualcosa s’inceppa - un tubo per annaffiare come dei vasi sanguigni - e qualcuno crolla sul prato perfettamente tosato, e la macchina da presa scende giù, fino a mostrare un brulichio selvaggio di formiche che paiono enormi, le stesse formiche che poi saranno attorno all’orecchio che il Jeffrey di Kyle MacLachlan troverà in un altro prato, facendolo entrare dentro il labirintico incubo noir che vedremo da lì in avanti.
Partiamo da lì, da quella dichiarazione d’intenti chiara e ovvia, da David Lynch che dice “vi faccio vedere io cosa si cela dietro l’immaginario del sogno americano, la quiete della suburbia, la pace della provincia, l’idealizzazione degli anni Cinquanta. Vi mostro io il marcio del nostro mondo”. Con Jeffrey, infatti, ci addentreremo in un mondo oscuro che contrasta con i colori pastello vividi di quell’incipit, un mondo fatto di violenza, perversione, turbe. Oscuro, osceno ma terribilmente seducente.
Non è stato l’unico Lynch, in quegli anni, a fare questa operazione di rilettura di una certa idea, molto anni Cinquanta, dell’innocenza americana, ma di certo nessuno l’ha fatta con la stessa radicalità e una tale visionarietà.
Eppure, a rivederlo oggi, Velluto blu è molto più di questo. Molto più del viaggio di Jeffrey nelle ombre della vita, e del suo essere scisso tra la purezza e la sicurezza della bionda Sandy di Laura Dern, e il fascino perverso e malato della Dorothy (nome così chiaramente oziano) di Isabella Rossellini.
Velluto blu è in qualche modo l’epicentro del terremoto lynchiano a venire (preannunciato dai film precedenti, certo), il punto d’origine di un pensiero e di un’estetica. Di certe ossessioni. Dentro a Velluto blu ci sono già gli embrioni di Twin Peaks, Cuore selvaggio, Mulholland Drive. Perfino di Una storia vera. E lo vedete come l’appartamento di Dorothy sembri quello di Rabbits?
Lynch lascia che la camera da presa ondeggi in maniera quasi impercettibile mentre Jeffrey e Sandy camminano sui marciapiedi del loro quartiere residenziale privandoci subdolamente della nostra stabilità; gioca non solo coi cromatismi ma anche con le luci, illuminando in maniera quasi mistica certi personaggi in certe situazioni e facendo sprofondare in un'ombra inquietante altri. Spalanca improvvisamente le porte al mistero e al non senso, non solo con l’incedere isterico e drogato del Frank di Dennis Hopper, ma per esempio in quella scena fantastica che è la visita a casa del “soave” Ben (Dean Stockwell) e nella successiva, in cui c’è il pestaggio di Jeffrey da parte di Frank mentre Roy Orbison canta “In Dreams” e una delle donne dello strampalato harem di Ben balla sul tetto della sua Charger.
E allora no, non è solo un viaggio nel lato oscuro dell’american dream, Velluto blu, ma è l’inizio di quell’esplorazione dell’inconscio e del desiderio che Lynch non ha mai smesso di portare avanti.
Diversamente da quanto avverrà in certe opere successive, Lynch fa riemergere lo spettatore dal tunnel mentale in cui l’ha spinto, alla fine del film, e sembra riportarlo allo stato iniziale e luminoso delle cose e della vita. Ma qualcosa è cambiato per sempre, in quel mondo e in noi, e quella consapevolezza, dentro ai personaggi e dentro di noi, lavora, rumina, macera, addenta. Come formiche che con le loro mascelle squarciano inesorabili le nostre certezze e le nostre illusioni. Perché quello che abbiamo visto, nascosti del buio di un armadio o di una sala, spiato tra i listelli come Jeffrey, ci ha cambiati per sempre.
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