“Una madre protettrice”, ma anche capace non solo talvolta di isolare il paese. Così Patricio Guzman definisce le Ande, la spina dorsale che occupa l’80% del territorio del Cile, nel nuovo film dedicato al suo paese, La cordigliera dei sogni. Dopo aver raccontato, con La nostalgia della luce (2010) e La memoria dell'acqua (2015), in maniera mirabile, altri elementi chiavi dell’ossatura geografica, ma anche dell’anima del suo Cile, il documentarista sorvola i 6000 metri e oltre delle cime innevate della cordigliera delle Ande in cerca delle tracce della storia e delle ferite del suo paese.
Presentato in questi giorni al Trento Film Festival e disponibile in streaming, prima fuori concorso a Cannes, La cordigliera dei sogni è accompagnato dalla consueta voce fuori campo del regista, ipnotica e scandita, ormai diventata riconoscibile marchio di fabbrica quanto quella del collega documentarista Werner Herzog. Si rivolge a noi spettatori parlando in prima persona, mentre percorre le tracce della sua infanzia, come le rovine della casa in cui è cresciuto, ormai un rudere con intorno i grattacieli della crescita economica, o rivendicando un più universale noi, quando rievoca il golpe di Pinochet, quel “grande terremoto che ha cambiato la nostra vita per sempre”.
Inizia in cielo, ricordando come “ogni volta che passo in cima alla cordigliera sento che sto arrivando nel paese della mia infanzia, delle mie origini”, ma come di consueto diventa per lui irresistibile la forza d’attrazione di quel terremoto, di quella Santiago natìa, “che dà le spalle alla cordigliera e ai 20 mila anni della sua storia”, e di quegli anni ’70 che l’hanno costretto poi a sognare, come tanti, il Cile da lontano. L’esilio, infatti, è stato il suo (e il loro) destino, una delle più antiche e dolorose punizioni per un amante che non ha mai ha smesso di amare il suo paese, come Guzman, nonostante il tradimento subito: la fine violenta di un sogno come quello di Allende e dei suoi sostenitori. Come negli ultimi lavori del regista cileno, ci troviamo di fronte a un viaggio intimo e personale, nella memoria contenuta nelle pietre antiche delle Ande, in chi le lavora e non potrebbe non averle sempre sott’occhio dalla finestra, e in chi le ha lavorate e utilizzate sul selciato di una strada come ricordo per i tanti che sparirono, o furono torturati, durante la dittatura.
Particolarmente sconvolgenti sono ancora oggi le immagini girate da Pablo Lucas, un uomo che ha iniziato e non ha smesso più di girare, custodendo un archivio visivo fondamentale della violenza strisciante, poi esplicita e di nuovo subdola dopo la caduta di Pinochet. Come lui sono ancora tanti i giovani che hanno raccolto il testimone, che quando ci sono manifestazioni vanno in strada con una telecamera, magari facendosi una birra quando si annoiano, come dice Lucas, “scrivendo in questo modo la memoria del futuro” del Cile, impedendo per sempre a chiunque di dire che quei fatti non accaddero mai.
Guzman ci mostra anche lo stadio di calcio, tristemente famoso per essere diventato un campo di concentramento degli oppositori nei giorni del colpo di stato, in cui lui stesso fu rinchiuso per quindici giorni. Lo stesso stadio in cui da ragazzino aveva visto ai mondiali del 1962 il Cile perdere con l’italia, ma pochi giorni dopo finire al terzo posto, con tanto di festeggiamenti durati per mesi. Dopo quei giorni non ha più vissuto in Cile, sono ormai 47 anni, anche se ha dedicato tutta la carriera, e venti film, al suo paese. La cordigliera dei sogni è uno di questi, un viaggio magnetico, come al solito pieno di poesia, fra luoghi e memoria, rimpianti e sogni, con la speranza che prima o poi quella terra martoriata, che dopo Pinochet ha subito le storture economiche del neoliberismo della scuola di Chicago, possa un giorno trovare gioia e allegria.
La cordigliera dei sogni, in concorso al Trento Film Festival, è disponibile da tutta Italia in visione a 4 euro sulla piattaforma online della rassegna.
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