martedì 25 agosto 2020

Rose Plays Julie: intervista ai registi del thriller psicologico sulla figlia di uno stupro

Arriva dalla verde Irlanda il terzo film della sezione del Bari International Film Festival Anteprime internazionali, che si intitola Rose Plays Julie ed è un bel thriller psicologico e nello stesso tempo un revenge-movie su una ragazza adottata che va in cerca della sua vera madre. Rose è la figlia di uno stupro e prova a rintracciare la donna che l'ha data via immediatamente dopo il parto per dimenticare la violenza subita. Ha un ritmo niente affatto forsennato il film e gioca con la vita e con la morte, anche perché Rose studia veterinaria e vede praticare l'eutanasia a diversi animali. Rose è innocente e nello stesso tempo maliziosa e manipolatrice, ma è l'elemento energetico e positivo di un film nel quale, nonostante uno dei due registi sia di sesso maschile, gli uomini non fanno esattamente una bella figura. Rose Plays Julie è interpretato da Ann Skelly, Orla Brady e Aidan Gillen, e porta la firma di Christine Molloy e di Joe Lawlor, che sono marito e moglie. Abbiamo l'occasione di incontrarli nella hall dell'Hotel delle Nazioni, dove soggiornano da qualche tempo, trascorrendo le giornate in giro per amene località pugliesi. Gentili e sorridenti, ci parlano dell'inizio della loro collaborazione artistica.

C.M.: "Io e Joe siamo entrambi cresciuti a Dublino, in Irlanda, e dividiamo la vita da moltissimi anni. Quando ci siamo sposati, io avevo soltanto 21 anni, ero giovanissima. Abbiamo fatto teatro insieme e abbiamo scritto per il teatro, e negli anni '90 abbiamo formato una nostra compagnia, ma il nostro grande amore era il cinema. Facevamo teatro sperimentale e nessuno di noi aveva mai studiato cinema, quindi, quando abbiamo cambiato linguaggio, abbiamo fatto tesoro del nostro lavoro sulle tavole del palcoscenico. Abbiamo esordito nel 2004 con il nostro primo cortometraggio. Da quel momento abbiamo proseguito con i film, girando diversi altri corti, e infine ci siamo lanciati coraggiosamente in un'altra nuova avventura: il lungometraggio".

Cosa esattamente vi siete portati dietro dal teatro?
J.L.: La centralità del testo, non c'è dubbio. L'elemento forse più importante di un film è la sceneggiatura. Ogni cosa ruota intorno alla sceneggiatura perché è lo strumento con cui ottenere i finanziamenti e avere gli attori che desideri. I tre protagonisti di Rose Plays Julie hanno amato molto il copione, e quando ti trovi a lavorare con qualcuno a cui piace particolarmente ciò che hai scritto, prima di partire con il lavoro bisogna riunirsi per capire se le idee sui personaggi e sulla storia coincidano. Ciò significa avere delle lunghe conversazioni via Skype o WhatsApp, se non si abita nello stesso paese, e decidere come procedere. Molti attori non amano provare, ad altri invece piace molto. Con entrambe le tipologie risulta efficace parlare a lungo della sceneggiatura per stabilire il tono del film e sviscerare il suo significato. Ciò consente a tutti di arrivare preparati e con le idee chiare sul set. Nel caso di Ann, Orla e Aidan, siamo rimasti piacevolmente sorpresi, li avevamo voluti perché eravamo curiosi di scoprire come avrebbero interpretato i loro personaggi e volevamo essere sorpresi e spiazzati. Così è stato e ne siamo felici.

Perché avete scelto di affrontare un argomento spinoso come la violenza sessuale?
C.M.: Per noi era importante focalizzarci sull'impatto di un atto di violenza, in questo caso l'abuso sessuale. Non volevamo concentrarci né sulla violenza in sé, né su eventuali correità, né sul modo in cui la giustizia punisce o non punisce chi si macchia di stupro, né sulle immediate conseguenze di una violenza. Desideravamo semplicemente riflettere sul terribile gesto in sé e sul fatto che lo stupro è l'unica forma di violenza che può portare alla nascita di una nuova vita. La nuova vita, nel nostro film, è la protagonista Rose, e la storia comincia proprio con lei, che è stata adottata e che va in cerca dei suoi veri genitori, portandoli a confrontarsi. Nel cinema la violenza può diventare intrattenimento. A noi interessava muoverci diversamente, costruendo un racconto intorno a un personaggio che, essendo il frutto di uno stupro, si pone continue domande sulla propria identità. Fin dall'inizio volevamo comunque esplorare l'impatto psicologico di una violenza anche a distanza di anni.

Rose Plays Julie è un po’ un thriller psicologico un po’ un film di vendetta. Come avete affrontato questi generi anche da un punto di vista stilistico, formale?
J.L.: Non so spiegarle il perché di alcune scelte stilistiche e narrative come il formato cinemascope o il ritmo lento. Sentivamo continuamente il desiderio di rallentare, per esempio i movimenti di macchina. Non amiamo il ritmo forsennato, soprattutto nei nostri film, e credo che il cinema sia uno strumento meraviglioso per sospendere il tempo o dilatarlo. Non so perché abbiamo immaginato un film che potesse essere realistico ma anche fantastico, però quest'ambiguità ci piaceva, così come l'idea che la nostra giovane protagonista potesse compiere gesti un po’ estremi che lo spettatore difficilmente avrebbe giustificato. In fondo c’è anche dell'umorismo in Rose Plays Julie. Nemmeno per questo aspetto del film ho una spiegazione. Tutto è avvenuto di getto, spontaneamente e inconsapevolmente.
C.M.: Volevo aggiungere una cosa sulle atmosfere del nostro film. In teatro la prima cosa che si dice agli attori è: adesso dobbiamo creare un mondo, ed è il processo che io e Joe amiamo di più: stabilire un'atmosfera e mettere i personaggi in uno spazio. E in questo film ci siamo impegnati prima di tutto a collocare i tre protagonisti in un contesto, in un mondo, per Ellen sono i set cinematografici, per Peter gli scavi archeologici e per Rose le lezioni di veterinaria. E mentre scrivevamo la sceneggiatura, abbiamo prestato particolare attenzione alle nostre ambientazioni, e queste ambientazioni hanno influenzato e determinato il genere di appartenenza del film in qualche modo. Ecco perché abbiamo impiegato tanto tempo nella ricerca delle location adatte.
J.L.: Per noi è importante che i personaggi vengano definiti soprattutto dalla loro professione e dal contesto sociale in cui si trovano, dalle loro relazioni con gli altri anche. Non ci piacciono i film in cui i protagonisti hanno lunghe e dettagliate backstory, un numero enorme di flashback e continui rimandi alla loro infanzia. Li consideriamo una scorciatoia per attrarre lo spettatore. Per noi è meglio far lavorare il pubblico dandogli soltanto alcuni elementi della storia.

Pensate che le società occidentale siano in debito con chi ha subito violenza sessuale? Come si comporta la giustizia secondo voi?
C.M.: E’ deprimente il modo in cui si affronta nel nostro paese il problema della violenza sessuale. A volte nemmeno lo si affronta e c'è ancora chi dice, perfino in presenza di un cadavere, che una donna ha incoraggiato uno stupro o qualsiasi altra forma di violenza. Mentre giravamo il nostro film, ogni settimana c'era un caso di abuso sessuale, e il sistema giudiziario si rivelava ogni volta fallimentare e impreparato, così come la società intera e gli uomini. E’ in situazioni come queste che manca spesso una solidarietà fra uomini e donne: è come se esistessero due universi opposti e due modi di pensare inconciliabili. Per le giovani generazioni è diverso. Abbiamo una figlia adolescente, ha 17 anni ed è una grande sostenitrice del movimento #MeToo, ed è scandalizzata da ciò che vede. Avverte un profondo senso di ingiustizia perché è cresciuta in un mondo meno sessista di quello in cui siamo diventati grandi noi. Dobbiamo educare i nostri ragazzi a condannare la violenza altrimenti avremo fallito come società e le cose non potranno mai migliorare. E comunque, al di là della violenza sessuale, l'abuso di potere resta un nemico impossibile da sconfiggere, visto che ci sono alcuni politici, ad esempio Donald Trump, che ne sono una perfetta incarnazione. E il dramma è che al momento non vedo figure di spicco in grado di contrastare individui del genere.



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