Nel luglio 2006, nel pieno del conflitto armato tra Hezbollah e Israele, viene proclamato un cessate il fuoco di ventiquattro ore.
Marwan, figlio di un ex combattente che rifiuta di lasciare la propria casa malgrado il villaggio in cui vive sia soggetto a continui bombardamenti, decide di approfittare della situazione per raggiungere il padre e obbligarlo in qualche modo a tornare a Beirut con lui.
Arrivato alla casa del genitore con cui i rapporti si erano col tempo fatti difficili, Marwan trova, però, solo macerie e un paese nel concreto già mezzo abbandonato da una popolazione terrorizzata dalla ripresa delle ostilità ormai imminente.
Vicini di casa e amici di famiglia, coetanei del padre e ugualmente intenzionati a non abbandonare le proprie abitazioni, lo rassicurano comunque del fatto che il padre è ancora vivo e che, anzi, ha lasciato il luogo poche ore prima in cerca di un rifugio più sicuro che non può essere troppo lontano.
Marwan si rimetterebbe subito in viaggio, ma la macchina gli viene rubata sotto gli occhi da una donna in fuga coi suoi bambini. Non gli resta, così, che lasciarsi trasportare dal corso fatale degli eventi.
È, questo che abbiamo brevemente raccontato, il lungo prologo di Jeedar El Sot, opera prima di Ahmad Ghossein (classe 1981) presentata nella Settimana della critica di questa edizione del Festival del Cinema di Venezia.
Un preambolo che serve appena a darci conto di quelli che saranno i protagonisti della vera narrazione che, apprenderemo a chiusura della pellicola, è ispirata a fatti realmente accaduti in quel non troppo lontano luglio del 2006. La vicenda, chiusa e claustrofobica, comincia, infatti, di notte con i primi bombardamenti che miracolosamente lasciano illesa proprio la casa nella quale il protagonista aveva preso rifugio e che, scopriremo poi, viene risparmiata a ogni conflitto perché sorge su un complesso di cunicoli sotterranei.
Del conflitto che ha luogo fuori della casa, quindi, non vediamo assolutamente nulla se non quello che a mala pena si riesca a scorgere dalle finestre della casa nella quale si trovano assediati gli ultimi abitanti del piccolo villaggio.
La guerra in corso, si riduce così, nella percezione dei personaggi che è poi anche la nostra, a una sequela terribile di esplosioni, a colpi di pistola e di mitra, a suoni insomma, che provengono da un fuori che, non diventando mai reale oggetto di visione, assume connotati mitici e spaventosi.
Frattanto il piano superiore dell'abitazione viene occupato da un manipolo di soldati israeliani che ha perso i contatti col proprio battaglione e attende i soccorsi mentre fuori la situazione sembra volgere in loro sfavore.
La presenza inquietante del nemico al piano di sopra è resa per tutto il film solo ed esclusivamente a livello indiziale. L'occupante è così ridotto al rango di un pauroso rumore di passi che sembra quasi cadere dal soffitto, oppure al vocio indistinto in una lingua che solo uno degli abitanti del villaggio riesce a tradurre per gli altri. Una realtà anonima, insomma, e per questo ancora più terribile, che diventa appena un poco più concreta solo quando i soldati scendendo al piano di sotto e passando davanti a finestre schermate, assumono le fattezze di ombre misteriose.
La riduzione del nemico ad acusma, secondo l'accezione chioniana, è, da una parte, legata al bisogno di restare ancorati al punto di vista dei personaggi costretti a nascondersi al piano di sotto, e, dall'altra, segno di una percezione del conflitto in chiave assolutamente unilaterale. Poco viene fatto, infatti, in sede di scrittura filmica, per restituire un minimo di umanità a questo nemico occupante di cui non si capiscono le ragioni e le scelte. E questo poco ha spesso connotazioni ambigue: come nella scena in cui i soldati al piano di sopra si lavano, in un momento di disperata vitalità ungarettiana, cantando un nostalgico canto tenorile mentre l'acqua, cadendo tra i muri e dalle tubature rotte raggiunge anche gli uomini al piano di sotto, a segno di una comunità di destini che attiva, nella memoria collettiva, inquietanti assonanze con l'archetipo narrativo della doccia durante la Shoah. O, più ancora, nel momento in cui uno dei soldati israeliani viene ucciso da uno Hezbollah e diventa possibile, per i libanesi, vedere il suo occhio spalancato da uno dei fori del pavimento: se non altro, questa, un'immagine dal fortissimo valore iconico.
Al di là di queste riflessioni, il film di Ahmad Ghossein colpisce per la descrizione asciutta del microcosmo degli uomini assediati nella casa e per il sicuro senso drammaturgico nella gestione degli ottimi attori. Elementi che definiscono Jeedar El Sot come uno dei titoli migliori della selezione di quest'anno della Settimana.
(Jeedar El Sot); Regia: Ahmad Ghossein; sceneggiatura: Ahmad Ghossein, Abla Khoury, Syllas Tzoumerkas; fotografia: Shadi Chaaban; montaggio: Yannis Chalkiadakis; musica: Khyam Allami; interpreti: Karam Ghossein, Adel Chahine, Boutros Rouhana, Issam Bou Khaled, Sahar Minkara, Flavia Juska Bechara; produzione: Georges Schoucair, Myriam Sassine – Abbout Productions; origine: Libano, Francia, Qatar, 2019; durata: 93'
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