Alessandro Piva, che abbiamo conosciuto nel 1999 grazie al folgorante LaCapaGira, parlato quasi completamente in dialetto barese, continua il suo percorso di documentarista interessato alla storia italiana del secolo scorso con Fratelli di Culla, un'incursione nell’ex Brefotrofio di Bari che, dal dopoguerra agli anni '90, è stato la casa di tanti neonati abbandonati dalle madri per ordine delle loro famiglie, determinate a non accettare i bambini nati al di fuori del matrimonio o concepiti in età troppo giovane. A occuparsi di questi "figli di nessuno" è stata una comunità femminile instancabile e generosa, formata da balie, suore, cuoche, bambinaie, educatrici e assistenti sociali che ancora ricordano con affetto decine di lettini pieni di bimbi e neomamme smarrite alle prese con qualcosa di molto più grande di loro. Nel suo film Piva ha dato voce a questi bambini - che oggi hanno tra i 50 e i 60 anni - e lo ha fatto con grande delicatezza, con la consapevolezza di chi sa che deve procedere con cautela per rispettare le fragilità e le debolezze altrui e la curiosità di chi è interessato al cuore umano e alle sue intermittenze.
Incontriamo Alessandro Piva al Circolo della Vela, che da quest'anno è uno dei luoghi del Bif&st, e ci facciamo raccontare innanzitutto la genesi di un progetto che ha catturato fin dai primi fotogrammi il nostro interesse.
"L’idea di Fratelli di Culla" - ci spiega il regista - "nasce fondamentalmente dalla coincidenza topografica di aver abitato per molti anni a pochissima distanza dal Brefotrofio di Bari, che ho visto slabbrarsi negli anni. Considerata la mole dell'istituto, ho pensato che ci dovessero essere delle storie legate a quel posto che avevano attraversato i decenni. Un altro elemento scatenante è stato rendermi conto che online ci sono tantissimi annunci di persone che, da neonate, erano passate da quell'istituto. La rete ormai sta sopperendo agli impedimenti che rendono faticoso risalire alle proprie origini biologiche da parte di coloro che scoprono di essere stati adottati, e quindi online ci sono appelli di individui che cercano di ottenere informazioni sulla propria madre biologica. Alcuni sono toccanti, disperati e ossessivi e mi hanno intenerito e commosso. Così ho pensato che, unendo questi due elementi, il mio documentario poteva diventare il secondo capitolo di un mio lavoro sulla storia italiana relativamente recente che è partito con Pasta nera, un documentario che parla dei bambini meridionali ospitati temporaneamente da famiglie del Centro-Nord subito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sia Pasta Nera che Fratelli di Culla narrano storie che riguardano centinaia di migliaia di individui. Considera che si stima che un milione di persone siano passate da istituti come il brefotrofio di Bari. Di loro si parla pochissimo, e così ho pensato che sarebbe stato bello dare a questi individui il giusto spazio".
Nel documentario si avverte una forte empatia nei confronti dei bambini che sono stati abbandonati e che oggi sono adulti. Che impressione ti hanno fatto?
Mi hanno colpito moltissimo. Quando un documentario funziona, ti coinvolge quasi inconsapevolmente sempre di più. Così è stato per Fratelli di Culla, per cui ho incontrato prima di tutto le operatrici della struttura. Anche se non erano coinvolte così personalmente nelle vicende dei bambini adottati, sono tornate indietro nel tempo con una vivacità e un'energia che ci ricorda che, all'interno di questi istituti, si era formata una comunità al femminile molto solidale. Dopodiché ho rintracciato i testimoni che vedete nel documentario, che spesso e volentieri hanno scoperto molto più avanti nella vita di essere stati adottati. Parlare con loro è stato molto emozionante. Considera che questo è il mio documentario in cui la troupe ha vacillato di più mentre girava: c'era il fonico che singhiozzava, l'operatore che chiedeva di fare una pausa. Avevamo a che fare con temi decisamente coinvolgenti, che però venivano raccontati quasi con freddezza e con molta pacatezza dai nostri protagonisti, perché probabilmente molti sono riusciti a trovare un equilibrio tra un passato pieno di punti interrogativi e un presente carico di possibilità. Le famiglie adottive hanno regalato a molti di questi bimbi una nuova opportunità, qualcosa che probabilmente le famiglie di origine non avrebbero potuto garantire.
Nel documentario ci sono filmati delle battaglie delle donne, a cominciare dalle manifestazioni a favore dell’aborto. Come mai?
Il filo rosso che lega il racconto anche cronologico del documentario sono le lotte femminili, il cambio culturale che ha portato all'emancipazione e al femminismo, o forse è il femminismo che ha innescato un mutamento socio-culturale che ha portato a due enormi conquiste che hanno cambiato totalmente il paradigma sociale italiano: la legge sul divorzio prima e la legge sull'aborto poi. Questi due colpi assestati all'Italia conservatrice, in altre parole l'Italia di matrice cattolica e democristiana, hanno demolito la ragione sociale di istituti come il Brefotrofio che racconto nel documentario, e infatti sono stati chiusi per mancanza di utenti.
A proposito di rivendicazioni femminili, credi che il #MeToo abbia davvero cambiato le cose? Cosa vedi, ad esempio, in questo momento nel nostro paese?
L'emancipazione femminile, il concetto della famiglia e la maternità sono i temi fondamentali del nostro stare insieme, del nostro vivere civile, quindi è ovvio che tornino in maniera ricorrente. Certamente anche il femminismo ha una storia di ondate, di movimenti: il primo femminismo, il secondo femminismo e così via. il #MeToo è un movimento che noi uomini abbiamo vissuto come un insieme di tentativi di scuotere un sistema e un modo di pensare ormai superati, ma credo che cambiare la cultura del nostro paese e demolire definitivamente il patriarcato sia una cosa che ha bisogno di tempi ragionevoli. Ci dobbiamo arrivare piano piano. I miei figli sono sicuramente più pronti di me ad affrontare questi cambiamenti paradigmatici, che a una certa età è più faticoso gestire.
Torniamo ai fratelli di culla e alle difficoltà che molti di loro hanno avuto nel rintracciare la propria mamma biologica. Qual è stato il problema? Scartoffie?
Scartoffie, burocrazia, leggi. In Italia è famosa una legge degli anni '80, chiamata La legge dei 100 anni, che cerca di rispondere, con gli strumenti che si avevano all'epoca, a una doppia necessità: innanzitutto quella di continuare a garantire l'anonimato alle madri che avevano richiesto di rimanere sconosciute favorendo così il percorso dell'adozione di bambini che avevano diritto a una seconda opportunità. Poi c'era il desiderio di garantire alle persone adottate il diritto di risalire alle proprie origini. Sono due esigenze completamente diverse, però oggi abbiamo capito che moltissime delle madri che hanno abbandonato i loro figli l'hanno fatto per costrizione, e quindi qual è la vera volontà di una donna che rinuncia al proprio figlio? Ecco cosa bisognerebbe capire. È anche vero che in questo momento c'è già uno strumento che consente a chi è stato adottato di far arrivare alla madre naturale la richiesta di uscire dall'anonimato. La madre in questo momento ha facoltà di negare questa richiesta e questo diritto, e comunque si tratta di una materia molto complessa. Quello che è certo è che in Europa la tendenza è diversa da quella italiana, però credo che le cose abbiano cominciato a cambiare e che quindi siamo pronti per affrontare l’intero impianto legislativo alla luce di una cultura che è cambiata e di necessità che sono mutate, e penso in particolare alle necessità sanitarie. Ci sono persone che hanno un grande bisogno di risalire al proprio patrimonio genetico o di rintracciare eventuali compatibilità midollari, e quindi, proprio alla luce di questo, bisognerebbe ripensare il rapporto tra diritti e possibilità.
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