mercoledì 5 maggio 2021

Woody Allen e i suoi sogni in bianco e nero, incontro con il regista newyorkese

Non è molto cambiata la vita quotidiana di Woody Allen, durante i lunghi mesi di pandemia. Il tapis roulant a sostituire gli ampi marciapiedi dell’Upper East Side di New York, nessuna cena fuori con gli amici, ma le giornate sono rimaste scadenzate da lunghe sessioni di scrittura e concluse con una partita di basket o baseball vista in televisione, sul divano, quest’anno che i suoi Knicks sono tornati a giocare decentemente. 

Proprio dal suo divano ci appare via zoom, quello su cui non vede le serie televisive (“non per prescrizione religiosa, anche se mi dicono tutti che sono molto belle”) e anche quest’anno si è perso con piacere gli Oscar. Il divano di casa, diventato un nemico per quelli come lui che ci fanno sognare ancora in bianco e nero, come le citazioni oniriche del suo ultimo film, Rifkin’s Festival, ambientato a San Sebastian e con Wallace Shawn, Gina Gershon, Louis Garrel e Elena Anaya, coprodotto dall’italiana Wildside e in arrivo #soloalcinema il 6 maggio, per Vision Distribution.

Un salotto che teme possa soppiantare la poltrona di una sala cinematografica, interrompendo il sogno collettivo e il buio della sala con l’incubo di visioni per pochi, e a casa. Woody Allen ama i festival, il film lo dimostra, ma odia la competizione, a cui non ha mai partecipato. Ama girare in Europa, trascorrere mesi con la famiglia in città che conosce, “perché è come se fossi in vacanza, è un’esperienza liberatoria che si riflette anche nel contenuto più spensierato dei film”.

Ha scritto, diretto e spesso interpretato quarantanove film, “alcuni belli e la maggior parte sono piaciuti al pubblico”. Ha accettato di rispondere alle domande di alcuni giornalisti italiani, anche se, per lui, “le domande che non hanno risposta sono le uniche che vale la pena farsi.”

Vedere i film al cinema

La maniera corretta per me di vedere un film è andare in un cinema, con uno schermo ampio, sedersi con centinaia di persone, in modo che sia un’esperienza sociale, è così che sono cresciuto. Alcuni restano a casa e li vedono sul computer o su uno schermo piccolo, seduti sul divano da soli, il che è una negazione dell’intera esperienza cinematografica. Sono molto preoccupato, già prima della pandemia la direzione era quelle del cinema a casa, ora è ancora più così. Molti si chiedono, perché andare al cinema, spendere soldi e fare la fila, se posso premere un pulsante in salotto e godere di schermi grandi e una visione di qualità? Ma non sono d’accordo: vedere Il padrino o i fratelli Marx in una sala con altre cinquecento persone è un’esperienza molto diversa rispetto a vederli a casa con pochi amici. Ma non credo che le generazioni che non sono cresciute con l’abitudine di andare in sala siano convincibili, sono molto pessimista, fra qualche anno il cinema sarà finito, o ridotto alla visione casalinga.

Dopo il Covid

Le interazioni umane di base torneranno esattamente come prima, ci saranno cambiamenti superficiali, magari alcuni si trasferiranno in altri quartieri o vorranno lavorare da casa, ma i desideri, le debolezze e ambizioni saranno le stesse. La pandemia è stato un evento tragico, ma in termini di abitudini di vita, scrivendo, non ho subito cambiamenti radicali. Mi sveglio la mattina, scrivo nella mia camera da letto, faccio esercizio sul tapis roulant, torno a scrivere, resto a casa, suono il clarinetto. È una routine solitaria e domestica, per me il lockdown è stato decisamente più semplice che per altri. La cosa triste è stata non poter vedere i miei amici la sera, andare al ristorante, questa è stata una perdita.

Il prossimo film, sulla falsariga di Match Point

Ho una sceneggiatura pronta che avrei dovuto girare l’estate scorsa a Parigi, ma poi è arrivata la pandemia. Ora che il cinema torna a operare a pieno regime conto di tornare in Francia e girarlo. Tengo sempre al riserbo sui miei progetti, ma posso solo dire sarà un film lungo la falsariga, in termini generali, di Match Point. È un’idea che si adatta bene alle città europee e Parigi è il luogo che ho pensato originariamente e credo ancora sia il posto adatto.

Differenze fra il cinema americano e quello europeo

La principale differenza è che dopo la Seconda guerra mondiale il cinema europeo è diventato maturo artisticamente, non dipendeva da quanti soldi potevi guadagnare con ogni film, ma cercava di innovare dal punto di vista artistico, mentre negli Stati Uniti si sviluppava un cinema immaturo, dipendente solo dal profitto. Per questo il cinema europeo ha superato decisamente quello americano, sia dal punto di vista tecnico che dei temi affrontati. Sono i film con cui sono cresciuto da ragazzo, quelli che tutti volevano vedere, non quelli americani che ci apparivano al confronto infantili e triviali. La vera innovazione era di casa in Europa, non a Hollywood.

Biden e la politica americana di oggi

Siamo in buone mani, Biden è un buon presidente, con idee promettenti e un dialogo con il partito di opposizione che porterà solo giovamento al paese. È arrivato alla presidenza durante un periodo molto caotico e ora la pandemia negli Stati Uniti è in forte calo, stanno riaprendo i ristoranti, le scuole, i teatri. Il suo cuore è al punto giusto, è un politico di spessore, solido e perfettamente degno di essere presidente, sia come essere umano che come leader efficace. 

Wallace Shawn, il protagonista di Rifkin’s Festival

Originariamente, scrivendo il film, avevo pensato a un Rifkin più giovane, ma non c’erano molti attori che lo volevano fare. Qualcuno mi ha proposto di scegliere Wallace Shawn e mi sono detto che sarebbe stato perfetto, solo troppo grande, poi mi sono reso conto che sarebbe stato meglio fosse più anziano, in modo che potesse aver vissuto l’esplosione dei grandi autori europei che riempivano i cinema americani. Una cosa che del resto facevo io, anche se ha dieci anni meno di me, a posteriori avrei potuto interpretarlo, ma non ci ho mai neanche pensato. Come sceneggiatore, non puoi fare a meno di inserire qualcosa di te anche in personaggi molto diversi, conosco troppo bene le mie abitudini, i miei difetti, paure e ansie, il mio umorismo. Qualcosa spunta fuori in ogni personaggio, anche se non lo interpreto.

Leggi anche La recensione di Rifkin's Festival

Non sono un ipocondriaco

La mia famiglia e i miei amici mi accusano sempre di trasformare la mia ansietà e le mie ambizioni creative in sintomi medici. Ho una reputazione da ipocondriaco, non lo sono, l’esperienza mi ha insegnato come i conflitti emozionali e creativi spesso diventano sintomi reali, fisici. È qualcosa che posso raccontare facilmente, perché fanno parte del mio vissuto.

Lo lasciamo, sempre seduto sul suo divano, con alle spalle scaffali pieni di libri, pronto a tornare a scrivere, almeno speriamo, perché il suo maggior rimpianto sarà anche “non aver mai diretto un vero capolavoro, nonostante una totale libertà creativa”, ma noi vogliamo tornare a sognare in bianco e nero, grazie al suo prossimo film.



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