"Lo spunto per Due piccoli italiani nasce quasi trent'anni fa, da una cosa che avevo scritto per il teatro," spiega Paolo Sassanelli, che alle soglie dei sessant'anni, e con due premiati cortometraggi alle spalle, ha deciso di esordire anche nel lungo. "Pian piano quello spunto si è trasformato, e con Chiara Balestrazzi abbiamo scritto infinite stesure del copione nel corso di tanti anni di lavoro." E se il film arriva nelle sale solo adesso, è perché "solo adesso abbiamo trovato le risorse per realizzarlo," spiega l'attore e regista.
I due piccoli italiani del titolo sono appunto lo stesso Sassanelli e Francesco Colella, navigato attore di teatro che al cinema ha avuto piccole parti in film come Piuma e Nico, 1988; Felice e Salvatore, per chiamarli col nome dei loro personaggi, due ospiti di una clinica psichiatrica pugliese che fuggono dalla struttura per intraprendere un viaggio on the road che li porterà prima a Monaco (dove Felice vuole incontrare la madre perduta, e dove Salvatore incontrerà l'amore nei panni della vitalissima Anke di Rian Gerritsen), e infine in Islanda, dove secondo Felice esiste una sorta di clinica del DNA capace di guarirli dal loro male.
Un canovaccio, questo, che sembra richiamare, al maschile, quello di La pazza gioia di Paolo Virzì: e chissà che Sassanelli non pensi proprio al livornese quando, col sorriso e senza acrimonia alcuna, dice "mi dovrebbero dare un premio solo perché sono uno dei pochi registi a non dare il ruolo di protagonista a sua moglie," riferndosi al fatto che Marit Nissen, in Due piccoli italiani, appare solo per una parte divertente ma di contorno.
E, parlando del suo cast, Sassanelli dice di essere stato "fortunato, ma anche bravo", a mettere assieme un gruppo di "esseri umani pieni, e generosi, disposti a girare tre paesi europei in quattro settimane di lavorazione."
"Del nostro film," prosegue, "parlo come di un cinema 'in salita', e non solo perché racconta di un viaggio da sud verso nord, ma anche perché avevamo pochi mezzi a disposizione, ma una grande passione ci animava."
Sassanelli racconta poi di attori famosi che avrebbero voluto fare il suo film ma che "si sono subito tirati indietro quando hanno scoperto quanti pochi soldi avevamo," e di come questo lo abbia costretto a fare provini, scoprendo così che " in Italia ci sono attrici e attori straordinari che però lavorano pochissimo."
Quella dei casting è stata per il regista "una grande esperienza umana," culminata con l'incontro con Colella. "Sono rimasto subito colpito da lui perché aveva un profumo particolare, che per me era tranquillizzante," spiega, "E poi ho scoperto che ha un'umanità incredibile, e ho capito presto che assieme risuonavamo bene, che avevamo la giusta alchimia per ricalcare quella di Felice e Salvatore."
Di Due piccoli italiani, Sassanelli non voleva fare "né una commedia, né un film drammatico. Una mia amica lo ha definito una favola, e mi piace come definizione: una favola poetica contemporanea su due persone piccole che non non dicono più 'ormai cosa vuoi che facciamo', ma 'ce la possiamo fare'".
Il tema della malattia mentale, prosegue, "è qualcosa che in qualche modo mi appartiere, e che appartiene alle nostre paure: la paura che tutti noi abbiamo di poter perdere il senno. Sono contento che il film arrivi nell'anno del quarantennale della legge Basaglia, perché Basaglia era un visionario, a modo suo un artista: uno che ha immaginato un mondo diverso e l'ha realizzato. Quello che manca a questo paes, oggi, sono proprio i visionari, quelli che immaginano un futuro diverso."
Visionario o meno, Sassanelli è comunque stato un ossessionato: "Perché nata come un'idea passeggera, quella di realizzare un lungometraggio si è per me tramutata in un ossessione. Ma si tratta di un'ossessione positiva, perché se non hai questa urgenza di raccontare una storia, la tua storia, forse il cinema è meglio che tu non lo faccia."
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