(si ringraziano Lorenzo Burlando e la Cineteca di Bologna per le foto)
Diamoci la verità: lezioni di cinema, masterclass o conferenze tenute dai grandi registi sono, spesso e volentieri, delle cose noiosissime.
Perché, prima di tutto, non sta scritto da nessuna parte che chi è molto bravo a fare un lavoro - soprattutto se artistico - è anche bravo a spiegarlo, e a raccontarlo. E quindi anche perché, nella stragrande maggioranza dei casi, ci si trova di fronte a persone che inanellano una serie di banalità elementari, o che al contrario, consumate dal loro ego spesso strabordante, diventano pompose e autoreferenziali, tutte intellettualismi e tecnicismi spesso inutili e tutti di forma.
Se c'è una persona che fa eccezione a questa regola generale che ho appena inventato, questi è Martin Scorsese: che non è solo uno dei più importanti registi della storia del cinema, e un cinefilo impegnato in primissima linea nella battaglia per la conservazione del cinema del passato, ma un conversatore brillante, un uomo spiritoso, capace di dire cose complesse in modo semplice e divertente, e che ha quello che ho sempre pensato essere che il marchio della vera grandezza: non tirarsela nemmeno quando sei il più bravo al mondo a fare una cosa.
Non poteva esserci nessuno di meglio, quindi, per inaugurare alla grande l'edizione 2018 di Il Cinema Ritrovato, il festival che parla del cinema del domani attraverso il cinema di ieri, per parafasare le parole del direttore della Cineteca di Bologna Gianluca Farinelli. Che, per la lezione di cinema di Scorsese - tenuta prima che il regista scendesse in Piazza Maggiore per presentare la proiezione di uno dei film restaurati dalla sua Film Foundation, Enamorada di Emilio Ferdandez, come aveva fatto la sera precedente col suo Toro scatenato - ha voluto a conversare con lui quattro nomi importanti, e più o meno nuovi, del nostro cinema - Valeria Golino, Alice Rohrwacher, Jonas Carpignano e Matteo Garrone - proprio per sottolineare il legame tra passato e futuro e per omaggiare un maestro che, col suo lavoro documentaristico, ci ha insegnato ad amare di nuovo il nostro cinema del passato.
A rompere il ghiaccio è Garrone, che ha subito voluto sollecitare Scorsese su un tema difficile e centrale: come fare per far sopravvivere il cinema così come noi lo conosciamo in anni in cui l'esperienza della sala sembra aver perso la sua centralità.
"Sono stato uno spettatore di cinema fin dal 1944," dice Scorsese, "e credo che non ci sia nulla di paragonabile al vedere un film in sala, che si tratti di Lawrence d'Arabia o Umberto D.: è un fatto innegabile. Come garantire la sopravvivenza di questa questa esperienza per le generazioni a venire?
Credo che non ci siano dubbi: bisogna impegnarsi per supportare il cinema, la sala, in giro per il mondo, e un festival come questo di Bologna lo fa. Supporto," spiega poi, "vuol dire andare al cinema a vedere un film restaurato, portarci qualcuno per mostrare cosa voglia dire, pagare il biglietto per dimostrare al sistema che questa cosa è ancora valida, che l'esibizione del cinema è ancora qualcosa capace di spingere le persone ad uscire di casa. Certo, c'è un nuovo cinema che sta nascendo e che dobbiamo considerare," dice poi il regista, "ma l'esperienza dell'andare al cinema deve essere trasmessa come irrinunciabile. E dobbiamo anche spiegare e ricordare sempre la differenza tra un contenuto, come oggi viene spesso definito dall'industria, e l'arte; dobbiamo fare film che scuotano il pubblico, che lo provochi e lo faccia vergognare."
"Dovremmo forse insegnare cinema nelle scuole," aggiunge a questo punto Garrone, trovando subito una risposta entusiastica da parte di Scorsese: "Certo, dobbiamo insegnare ai ragazzi a leggere il cinema, alfabetizzarli visivamente. Negli anni Sessanta abbiamo lottato per rivendicare l'importanza dell'immagine contro la supremazia della parola, e abbiamo vinto, ma oggi le immagini, anche quelle del cinema sono poco significative, e bisogna restituire loro la loro importanza, anche attraverso quelle nuove tecnologie che oggi ti permettono cose che un tempo non potevamo nemmeno immaginare, ma che devono essere usate tenendo presente il loro valore artistico.
Valeria Golino, invece, decide di chiedere a Scorsese qualcosa sulle insicurezze di chi realizza un'opera, e sulla diversa percezione di un'opera da parte di chi la realizza e degli altri. "Come fare per sapere se stai facendo la cosa giusta," domanda.
"Devi rimanere sempre fedele alla tua primissima ispirazione," risponde l'italoamericano. "Perché tutto è sempre contro di te: la vita, la gente, l'industria. Ma tu devi custodire preziosamente quella piccola fiamma che senti bruciare in te, e alla fine vedrai che riuscirai a comunicare qualcosa a qualcuno, a qualcuno che non fa magari parte del tuo circolo ristretto - la mamma gli amici o la famiglia - e che magari è lontano nel mondo, e quella cosa che hai fatto durerà."
Con Jonas Carpignano si torna a parlare di restauri, di conservazione, e di come questa passione sia nata in Scorsese.
"All'inizio degli anni Settanta ho iniziato a vedere che troppe opere importanti si stavano perdendo," racconta il regista. "Quelle che avevo fatto al cinema erano le esperienze più importanti della mia vita, e mi faceva impazzire l'idea che le persone legalmente proprietarie di quei film non erano interessate a farli vivere ancora, che non si rendevano conto dell'impatto e dell'amore provato grazie a quelle opere. E così ho dato vita alla Film Foundation. Ai tempi ero giovane, e non sapevo che certe cose non si potevano dire, che venivano prese come un insulto. Ma io, come De Palma, Spielberg, Lucas, eravamo sconvolti dalla mancanza di spirito conservativo di Hollywood, per non parlare del restauro: le persone con cui parlavano erano interessati solo al business, ai profitti e ai dividendi. Pensate che Lucas ha utilizzato una paletta di colori per THX e Star Wars composta da bianco, nero, rosa e grigio proprio perché così che il degradare della pellicola non li avrebbe penalizzati. All'inizio ci prendevano come ragazzini matti, ma poi quando abbiamo iniziato ad avere successo le cose sono cambiate. Le porte hanno iniziato ad aprirsi e ho dovuto spiegare agli Studios che quello che era loro proprietà era in realtà patrimonio del mondo, e li ho spinti a collaborare con gli archivisti, che prima erano considerati da loro al pari di ladri che gli sottraevano le loro proprietà. C'è stato un cambiamento nel loro modo di pensare, ma oggi il problema si pone di nuovo, perché i formati digitali evolvono di continuo, e richiede migrazioni costanti affinché possano continuare ad essere letti. Paradossalmente l'unico supporto stabile per almeno un centinaio di anni rimane la celluloide."
Tocca poi ad Alice Rohrwacher, che sollecita Scorsese sul ruolo dell'Italia e del cinema italiano nella sua formazione cinematografica.
"Sono cresciuto in un mondo italoamericano, ero circondato da siciliani e dal siciliano," racconta il regista. "Avevo una grave forma d'asma, e non potevo fare sport o altro, ero un bambino un po' isolato e allora la mia famiglia mi portava spesso al cinema, dove i film raccontavano di un altro mondo rispetto al mio, raccontavano l'America, con i suoi western a colori spettacolari e gli animali che io, sempre per via dell'asma, non potevo avvicinare. Poi, negli anni Cinquanta, ho capito che la vera America non era quella raccontata da quel cinema, e nello stesso tempo in tv hanno iniziato a far vedere i film del neorealismo italiano, che erano così diversi da quelli hollywoodiani, ma che raccontavano una realtà vicinissima alla mia, che non erano solo intrattenimento. E con tutto il mio amore per il cinema americano e inglese, in quei film ritrovavo una verità superiore. Da quando ho iniziato a fare il regista, non sono mai riuscito nel tentativo di fare un film che avesse la verità del cinema neorealista e la bellezza e la grandiosità dei film di John Ford o Vincente Minnelli, non sono mai riuscito a combinare bene le due cose assieme. Ma alla fine ho capito che devi solo fare la tua cosa. Devi essere tranquillo con te stesso, senza sforzarti di copiare nessuno, fare la tua cosa lasciandoti ispirare da quello che ami. Le citazioni, quelle le puoi fare, io mi diverto moltissimo a inserire citazioni e riferimenti ai film che amo nei miei."
Tocca di nuovo a Matteo Garrone, che sceglie di scendere più sul tecnico, chiendendo a Scorsese quali siano le parti del lavoro di un regista che ama di più, e quelle che ama di meno.
"Di sicuro la logistica è una delle cose più difficili che devo affrontare nel mio lavoro," risponde Scorsese, "specie quando hai grandi budget e grandi troupe, perché ti muovi più lentamente e perdi in spontaneità. Devi controllare bene le cose, e la comunicazione - lo ripeto sempre - per me è tutti: quando tre persone diverse, sul set, arrivano a chiedermi la stessa cosa, alla terza io perdo le staffe. Faccio anche molta fatica col concetto di illuminazione, perché da piccolo per me esistevano solo due gradi opposti: il buio e la luce, niente in mezzo. Per me la luce era solo il sole, o una lampadina. Al massimo la luce drammatica della chiesa di St. Patrick che frequentavo, che sicuramente mi ha influenzato. Mi piace tantissimo invece quel momento in cui il copione è quasi finito, e io me ne vado in un hotel per una decina di giorni e inizio a disegnare il film da solo, e poi inizio a discuterne il feeling e l'aspetto coi miei collaboratori: mi piace perché ho il controllo quasi completo, in quel momento. Ma la cosa che mi piace di più è rimanere da solo in sala di montaggio con Thelma Schoonmaker, quando assieme ricostruiamo il film."
Infine, Carpignano si chiede, e chiede al maestro, qualcosa sul suo rapporto con attori e recitazione.
"La mia era una famiglia povera, non ci potevamo permettere il teatro, e io per vedere gli attori avevo solo il cinema, anche se i ragazzini delle strade dove sono cresciuto erano i migliori attori che avessi mai visto," racconta Scorsese. "Poi intorno ai quattordici anni ho iniziato a vedere e rivedere i film di Elia Kazan - Un tram che si chiama desiderio, Fronte del porto, La valle dell'Eden - e mi sono ritrovato tantissimo in quelle storie, rivedevo la gente che conoscevo, e la recitazione dei suoi film mi ha sicuramente influenzato. Poi è arrivato Cassavetes, che ha cambiato il modo di lavorare con gli attori, e che parlava con la stessa intensità di un mondo che non era il mio, ma che lo diventava, e che poi lo è diventato quando ho iniziato a studiare cinema alla NYU. Cassavetes per me è stato un mentore, mi ha praticamente costretto a fare Mean Streets. Quando ho iniziato, con Harvey Keitel, Robert De Niro e tutti gli altri c'era amicizia, e un legame di fiducia. De Niro poi conosceva le stesse persone che conoscevo io, conosceva la mia cultura, che era la sua, e con lui è stato sempre facile lavorare, perché non dovevamo parlare molto per spiegarci le cose.
from ComingSoon.it - Le notizie sui film e le star https://ift.tt/2IlY7I0
via Cinema Studi - Lo studio del cinema è sul web
Nessun commento:
Posta un commento