martedì 27 giugno 2023

Indiana Jones storia di un eroe multimediale

Ora che Indiana Jones e il Quadrante del Destino è in arrivo al cinema, segnando il saluto di Harrison Ford nei panni del personaggio che ha interpretato per quarant'anni, è il caso di ripercorrere le tappe principali di questa lunga cavalcata: George Lucas e Steven Spielberg crearono un eroe che ha attraversato i decenni in più forme, non soltanto cinematografiche. Il prof. Henry Jones Jr. (perché "Indiana era il nome del cane") rimarrà sempre con noi, simbolo di un'epoca mitica della creatività hollywoodiana, la stessa che generò l'immortale Star Wars.

Indiana Jones, il debutto con I predatori dell'arca perduta

L'idea che all'inizio degli anni Settanta balenò in testa a George Lucas, quella di omaggiare i serial cinematografici di avventura anni Trenta-Quaranta, era una scommessa, non diversa dalla riproposizione della fantascienza alla Flash Gordon con Guerre Stellari.
Quando dopo American Graffiti (1973) Lucas riuscì ad ottenere i finanziamenti per Star Wars, l'idea di quell'altro omaggio fu momentaneamente accantonata, per venire poi ripresa alla fine del decennio. Originariamente I predatori dell'arca perduta doveva essere diretto da Philip Kaufman (L'insostenibile leggerezza dell'essere), che ne aveva concepito il soggetto con Lucas e aveva suggerito l'idea dell'Arca dell'Alleanza. Ben sapendo che l'amico Steven Spielberg desiderava ardentemente dirigere un James Bond, quando Kaufman si tirò indietro, Lucas propose questo progetto simile all'entusiasta Spielberg, reduce dal fiasco di 1941. Il film che il pubblico nel 1981 si trovò davanti, pur diretto con virtuosismo e inventiva da Steven, era il prosieguo logico di un cinema che bilanciava nostaglie personali con professionalità spettacolari: l'essenza dell'entertainment, da molti punti di vista del tutto indipendente, di George Lucas.

Nella storia dell'archeologo-avventuriero Indiana Jones, che nel 1936 cerca di sottrarre ai Nazisti il ritrovamento dell'Arca dell'Alleanza con l'aiuto del fidato Sallah e della ribelle Marion Ravenwood, confluì di tutto: scenografie ed esotismo old-style, tecnologie moderne, ingenuità d'altri tempi e magico equilibrio tra autoironia e sincero trasporto, anche grazie alla sceneggiatura di Lawrence Kasdan, che aveva già scritto L'impero colpisce ancora e che sarebbe stato in futuro autore de Il Grande Freddo. I fan discutono ancora sulla dipendenza del personaggio di “Indy” dal suo interprete Harrison Ford, che lo soffiò per un colpo di fortuna al selezionato Tom Selleck, che dovette rinunciare per non pagare una forte penale sullo stop di Magnum P.I. Anche se la vulnerabilità del personaggio, suo punto di credibilità e simpatia, deve molto alla recitazione naturale e non gigionesca di Ford, Lucas non ha mai costretto la sua imprenditorialità creativa solo nel cinema. Un accenno a ciò che sarebbe stato Indiana lo si ebbe già nello stesso 1981, quando la Marvel Comics pubblicò in edicola un adattamento del film sotto forma di fumetto, contemporaneamente alla prima “novelization” della sceneggiatura.

Indiana Jones e il pulp maledetto

Il successo al di là delle aspettative dei Predatori, prodotto con la Paramount per un budget relativamente basso di 20 milioni di dollari, non poteva non richiamare un prosieguo della serie. Indiana Jones e il Tempio Maledetto, uscito nel 1984, diretto sempre da Spielberg e scritto dai co-autori di American Graffiti, cioè Willard Huyck & Gloria Katz, era un prequel che vedeva Indy affrontare in India nel 1935 un pericoloso culto di Shiva, accompagnato dalla recalcitrante cantante Willie Scott e dallo scatenato bambino cinese Short Round. Nonostante un'ultima memorabile mezz'ora che ridefinì il concetto di "action-movie" con riprese spettacolari, i fan generalmente hanno considerato il secondo film della saga come il meno convincente della trilogia.

In realtà Lucas aveva già cominciato il suo processo di esplorazione del personaggio: dal 1983 la Marvel aveva iniziato la pubblicazione di un comic-book mensile (poi bimestrale), che fino al 1986 narrò imprese originali dell'archeologo, "The Further Adventures of Indiana Jones", parzialmente pubblicato in Italia da Bonelli. Il debito con la narrativa di massa, nel caso specifico col fumetto pre-Marvel, vicino al "Tyler's Luck" del 1928 (“Cino e Franco” in Italia) si dimostrava in questi fumetti più forte che ne I predatori: gag spaccone in gran quantità, un Indiana super-eroe strafottente, situazioni che oscillavano tra il sovrannaturale e il poliziesco, didascalie enfatiche di un narratore onniscente. Nessuna sorpresa se Il tempio maledetto è quindi il più volutamente kitsch della saga: la sua cupezza grottesca poggia su una storia che non deve pagare debiti di rispetto alla tradizione cristiana, ed è stato probabilmente il gioco dell'autoironia, sin troppo scoperto, ad aver allontanato chi di Indiana aveva apprezzato il lato “serio”.

Il professor Jones e l'ultima crociata

Fu forse per questa ragione che Lucas, quando alla fine degli anni Ottanta volle concludere la trilogia, decise di tornare all'impostazione più nobile e relativamente più plausibile de I predatori. Questa volta Indy sarebbe andato alla ricerca del Santo Graal, di nuovo contendendosi la reliquia con i Nazisti, nel 1938. Una battuta d'arresto arrivò però da Spielberg, alla ricerca di un "di più" che motivasse la ripresa della solita struttura narrativa. Le scelte che seguirono a queste obiezioni non solo partorirono nel 1989 Indiana Jones e l'Ultima Crociata, a detta dei fan la pellicola migliore della serie, ma diedero definitivamente a Lucas la convinzione che Indy potesse serializzarsi. Il prologo che raccontava come Indy da ragazzino (il compianto River Phoenix) nel 1912 avesse ottenuto cappello e frusta e avesse "scoperto" l'archeologia, unito al rapporto che per tutto il film Indiana aveva con suo padre, interpretato da un sornione Sean Connery, donò al personaggio una dimensione nuova: una vera continuity. Dopo il successo ancora una volta mirabolante del film, che offriva la scioltezza registica del secondo film sorretta dalla grandeur del primo, grazie anche al perfetto copione di Jeffrey Boam (Salto nel buio), c'era da domandarsi se Indy sarebbe mai potuto esistere senza Harrison e Spielberg, che vissero il film come un sipario. Ci si provò, in varie direzioni.

Indiana Jones alla ricerca del tubo catodico

Indy non è stato assente dagli anni Novanta, anzi. Lucas mette presto in cantiere quattro nuove incarnazioni del suo beniamino. La prima è una serie televisiva, Le avventure del giovane Indiana Jones (1992-96), in cui si segue Indiana dalla tenera età (1908) all'adolescenza (1920), in compagnia di due attori, Corey Carrier, che lo interpreta da bambino, e Sean Patrick Flanery, che ne veste i panni da giovane. Questa serie ha nettamente diviso gli appassionati: di fatto è differente dai film per la quasi totale assenza dell'elemento sovrannaturale, sostituito da un'impostazione educativa e didattica che vede Indy interagire con grandi avvenimenti storici come la I Guerra Mondiale e grandi personaggi come Lawrence d'Arabia, Albert Schweitzer, Tolstoj, Edison e Pancho Villa.

Frusta e fedora non mancano, ma la dimensione amabilmente cialtrona latita e la cornice con un Indy ottuagenario che ricorda il passato (interpretato da George Hall) fu addirittura eliminata dallo stesso Lucas nelle riedizioni home video della serie. Solo il film tv "The Treasure of the Peacock's Eye" (1995) recuperò una parte dell'anima classica del personaggio, servendo concettualmente da trait d'union tra la serie e la saga cinematografica, presentando un Indiana che abbracciava la sua vocazione. Chiuso per mancanza d'interesse da parte del grande pubblico, il ricco show, elegante nelle ricostruzioni e a suo modo pur sempre unico nel panorama televisivo, vide un cammeo di Ford nei panni di un Indy cinquantenne nella cornice dell'episodio "Il mistero del Blues" (1993). Tra i nomi illustri alla regia, Nicolas Roeg, Mike Newell, Joe Johnston; tra gli sceneggiatori, Frank Darabont e Jonathan Hales, che avrebbe poi scritto con Lucas Star Wars Episodio II: Attacco dei cloni (2002).

Gli anni Novanta di Indiana Jones, tra videogiochi, fumetti e romanzi

Mentre i telespettatori cercavano di entrare in sintonia con un Indy così diverso, i videogiocatori dotati di PC, Amiga e Mac si godevano un Indy classico in piena forma, impegnato nel 1939 a scoprire il continente perduto di Atlantide prima degli onnipresenti Nazisti, interessati al potente metallo/carburante dell'oricalco. Il videogame era diverso dai tie-in dei primi lungometraggi affidati a terzi come l'Atari, a scopo di marketing. Intitolato "Indiana Jones and the Fate of Atlantis" (1992) e realizzato dalla stessa LucasArts Entertainment Company di George, era un'avventura grafica a controllo punta & clicca, il genere videoludico più essenzialmente narrativo, costituito da dialoghi interattivi, esplorazione e risoluzione di enigmi. Sceneggiatura originale e direzione del progetto erano a cura di un ex-cineasta: quell'Hal Barwood che collaborò al copione dell'esordio cinematografico di Spielberg, Sugarland Express (1974). Il gioco rimase tanto radicato in chi lo provò, da essere considerato per anni (e da qualcuno tuttora) l'ufficiale quarto capitolo delle avventure di Indy, subito dopo L'ultima crociata, anche se non vi era alcuna somiglianza tra lo striminzito omino sullo schermo e Harrison Ford. Dopo un precedente acclamato adattamento con lo stesso stile dell'Ultima Crociata nel 1989, apripista per questo esperimento, la scommessa era vinta: ci poteva essere un vero Indy anche senza Ford.

Sulla scia del gioco, Lucas avviò una partnership con la Dark Horse Comics, che iniziò nel 1991 proprio con un adattamento a fumetti di Fate of Atlantis, proseguendo per tutto il decennio con pubblicazioni sporadiche di pregevoli graphic novel di quattro albi ciascuna, dedicate all'Indy maturo, più rifinite graficamente, meno pulp e in generale meno retrò. Tra di esse è da segnalare senz'altro "Indiana Jones and the Iron Phoenix" (1995) di Lee Marrs e Leo Durañona, adattamento di un'altra avventura grafica cancellata.
Quarto tassello dell'Indy dei Novanta è la serie di romanzi ufficiale patrocinata da Lucas e scritti, nell'ordine, da Rob MacGregor, Martin Caidin e Max McCoy. I libri coprono il personaggio dalla fine della serie tv (1920) agli anni Trenta, a ridosso dei film. L'alta plausibilità storica e il maggiore realismo dello show incontrano sulla pagina scritta il tono scanzonato e il sovrannaturale della trilogia cinematografica. Solo i primi tre volumi sono stati editi in Italia nel '92 dalla Granata Press: "Pericolo a Delfi", "La danza dei giganti" e "I sette veli". Un'altra serie di romanzi, solo in lingua tedesca, scritti da Wolfang Hohlbein e senza la supervisione diretta della Lucasfilm, hanno invece negli stessi anni coperto l'Indy post-trilogia.

La crescente fatica di Indy negli anni Duemila e oltre

Spentasi la frequenza degli albi Dark Horse, chiusa la serie tv ed esauritasi la vena romanziera, Indiana è stato presente nel 2000 solo in ambito videoludico. Alla fine del 1999 è stato pubblicato dalla LucasArts per Windows (e poi Nintendo 64) "Indiana Jones e la Macchina Infernale", ragionata interessante imitazione di Tomb Raider, sempre scritto e diretto da Hal Barwood. Nella Guerra Fredda nel 1947, Indy si contende con uno scienziato stalinista il ritrovamento di una misteriosa macchina un tempo custodita nella mitica Torre di Babele: l'ambientazione e l'ammiccamento fantascientifico del gioco anticipano in modo evidente la direzione intrapresa in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (peggio e senza la finezza della Macchina Infernale). Narrativamente più debole si è invece rivelato nel 2003 il ripetitivo gioco d'azione "Indiana Jones e la tomba dell'imperatore" per Windows e console, con un Indiana che nel 1935 cerca di anticipare i Nazisti nel ritrovamento del Cuore del Drago, appartenuto al primo Imperatore della Cina.

A proposito del Teschio di Cristallo, la sua uscita nel 2008, dopo una tribolatissima stesura della sceneggiatura durata una decina d'anni, alla fine cofirmata con Jeff Nathanson e David Koepp, scontentò parecchi: a quasi 65 anni Harrison Ford diede il meglio sul set per essere all'altezza fisica di un film che Spielberg confezionò in modo molto allegro e spensierato. Anche troppo, per molti, con un'atmosfera finta e priva del vero sense of wonder caratteristico della serie, a dispetto dell'indovinata idea di ricontestualizzare Indy negli anni Cinquanta della Guerra Fredda, mettendolo contro i Russi alla ricerca del McGuffin più fuori registro della saga, quasi alieno. La presenza di un figlio (Shia LaBeouf), il ritorno della Marion di Karen Allen, sembrarono impostare un possibile futuro per la saga, invece disatteso, nonostante gli ottimi incassi.

Disatteso, perché da quel momento fino ad arrivare a Indiana Jones e il Quadrante del Destino (2023, ben quindici anni dopo!), è stato prodotto ben poco sul personaggio. Eufemismo per "praticamente niente". I due videogiochi celebrativo-parodistici Lego Indiana Jones (The Original Adventures del 2008 e The Adventure Continues del 2009) uscirono a ridosso del quarto film, di fatto come puro merchandising. E nel 2009 l'originale videogioco Indiana Jones e il Bastone dei Re fu cancellato sulle console ammiraglie PS3 e Xbox 360, vedendo la luce in forma ridotta solo su Wii, PS2, PSP e Nintendo DS, peraltro in un'accoglienza generalmente fredda. La vendita della Lucasfilm alla Disney nel 2012 non ha aiutato, concentrando l'attenzione dei nuovi proprietari sul più flessibile e remunerativo mondo di Star Wars.
Siamo in attesa di ulteriori notizie di un nuovo videogioco ad alto budget a soggetto originale, annunciato dalla Bethesda e dalla Lucasfilm Games all'inizio del 2021, mentre la rentrée a sorpresa nel mondo del cinema di Ke Huy Quan alias Short Round ci fa immaginare un recupero sostanziale della scatenata spalla. Solo il grande amore che proviamo per il professor Jones ci fa essere ottimisti su un possibile futuro della sua spavalda eredità.



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