giovedì 3 dicembre 2020

The Gentlemen: la recensione

C’è Londra, ci sono i gangster, gli intrecci criminali, le lotte per il potere e quelle per il denaro. C’è la violenza, c’è l’ironia, ci sono i dialoghi, c’è sempre qualcosa o qualcuno che sembra o dice una cosa e che in realtà è o ne sta dicendo un’altra.
C’è, insomma, in The Gentlemen, tutto quello che ha creato il fenomeno Guy Ritchie. C’è il ritorno del regista allo stile di quei film che ne hanno decretato successo e popolarità, Lock & Stock e Snatch, prima di tentare con alterne fortune anche altre strade, dai film fatti per amore (Travolti dal destino) a quelli fatti per danaro (Aladdin), passando per altri gangster, investigatori vittoriani, spie anni Sessanta e re leggendari.

Di anni, dai quei primi successi, ne son passati venti, e Ritche non è così ingenuo da non sapere cosa significhi il trascorrere del tempo, né da non far tesoro di tutta l’esperienza accumulata in quattro lustri d’esperienze cinematografiche. E allora sì, ci sono i gangster e le loro vicende, i giochi e i doppi giochi, ma gli abiti indossati sono diversi, perché i protagonisti di The Gentlemen sono a casa loro nei luoghi più eleganti di Londra e a loro agio con lord, duchi e altri potenti, e andare a fare un lavoretto sporco a South London, per loro, è giocare sgradevolmente fuori casa.

Gli abiti, allora, sono eleganti e di sartoria, come quelli di Sherlock Holmes e Watson, ma il cuore che vi batte sotto è sempre lo stesso, quello di gente che sa cosa vuol dire sporcarsi le mani e che è pronta a farlo anche se non ne ha più tanta voglia, perché comunque se vuoi essere re non devi solo atteggiarti a tale, devi esserlo e basta.
Allo stesso modo, la storia scritta e messa in scena da Guy Ritchie è apparentemente meno pop ed esplosiva, più composta e studiata, quasi sobria, per quanto sobrio possa mai essere uno come lui; ma l’energia e il divertimento sono sempre gli stessi, e il regista sa quando e come deve dimostrarlo.
È questione di maturità: la stessa maturità che Ritchie dimostra moderando i toni e miscelando i registri, spiazzando così i molti che non hanno capito, e che hanno pensato questo The Gentlemen non fosse né carne né pesce, né abbastanza serio e spietato, é sufficientemente diverito e cazzone. E invece, basta non fermarsi alle apparenze.

O forse, invece, no. Fermiamoci a queste apparenze. Alla struttura del film.
Dopo la sequenza iniziale, che vede protagonisti Matthew McConaughey, una pinta di birra, un uovo in salamoia e una pistola, ci spostiamo a casa di Charlie Hunnam, che di McConaughey è il braccio destro, dove arriva Hugh Grant, sublime nei panni di un investigatore privato omosessuale, avido e opportunista che a Hunnam vuole vedere utili segreti a carissimo prezzo (questa sua seconda fase di carriera, sua di Grant, quella in cui insegue ruoli sgradevoli o da villain, è tutta da godere).
Ecco: il racconto di Grant è, letteralmente, il film di Ritchie. Tanto che del suo racconto, il personaggio di Grant - impallinato di cinema, che ama il 35mm e il 2,35:1, ma trova noioso La conversazione - ha scritto anche una sceneggiatura.

Una sceneggiatura nella quale si racconta la storia di un americano arrivato in Inghilterra e diventato il re della marijuana, della sua voglia di vendere l’attività e ritirarsi a vita privata assieme alla moglie che ama più di ogni altra cosa (sì anche più del denaro), dell’altro americano che si offre di rilevarla per 400 milioni di dollari, di un gangster cinese giovane e ambizioso che ci vuole mettere le mani sopra, di un direttore di tabloid che quell’americano lo vuole incastrare, di figlie di lord eroinomani, di giovani lottatori-gangster-rapper e del loro coach, e di tanti altri personaggi squisitamente ritchiani.

Sarebbe fin troppo facile, e forse ingenuo, sostenere allora The Gentlemen, prima di ogni altra cosa, è per il suo autore un film sul piacere del racconto cinematografico, e una riflessione sui percorsi narrativi e le strategie dell’affabulazione che ha sempre percorso e messo in atto attraverso il suo cinema. Un cinema che puro piacere del racconto è sempre stato, che ha sempre avuto voglia di divertirsi e di divertire, e che qui si esprime in una forma compatta, composta e compiuta, quasi al suo meglio, anche grazie al cast che si è prestato con piacere, come si presta lo spettatore, all’ennesimo gioco cinematografico del furbo e sgamatissimo Guy Ritchie.
Sarebbe fin troppo facile, ma niente affatto inesatto.

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