venerdì 19 gennaio 2024

The Kitchen: la recensione del film distopico su Netflix

A dispetto del proliferare contemporaneo di programmi televisivi, serie tv e perfino film a tema cuochi e cucina - e a dispetto, ovviamente, del suo titolo - The Kitchen non ha niente a che vedere con pentole e fornelli, marinature e cotture lente.
Il titolo del film indica quello che in Italia chiameremmo un palazzo di edilizia popolare, l’ultimo rimasto in una Londra appena futuristica e solo apparentemente distopica, che le autorità hanno deciso di buttare giù e che i suoi abitanti continuano a occupare e difendere con stoica dedizione, a dispetto di frequenti raid della polizia. Ecco, l’unica occasione in cui c’entra il pentolame, in The Kitchen, è quando viene sbattuto fuori dalla finestra per segnalare l’arrivo degli agenti che, volta dopo volta, riescono a sgomberare qualche appartamento.

Opera prima da regista di Daniel Kaluuya (l’attore di Scappa - Get Out e di Nope di Jordan Peele, pluripremiato - dall'Oscar in giù - per il suo ruolo in Judas and the Black Messiah), che a diretto a quattro mani con Kibwe Tavares, uno che è filmmaker e architetto (e si vede, tantissimo), The Kitchen però non è solo un film che parla dell’assurdità della forbice socio-economica che, anche nel nostro presente, è divaricata in modo inquietante; né, come per esempio accade nei film francesi di Ladj Ly, un film che parla del conflitto radicale tra gli abitanti delle periferie divenute polveriere sociali, e la polizia e le istituzioni.
Di tutto questo ovviamente c’è traccia, come c’è traccia delle tensioni di Fa’ la cosa giusta, film di Spike Lee richiamato dalla figura di un dj che è voce e riferimento di un quartiere, ma in maniera abbastanza curiosa The Kitchen (che da Kaluuya è anche stato sceneggiato, assieme a Rob Hayes e Joe Murtaugh), punta a concentrare l’attenzione dello spettatore su una vicenda decisamente più privata.
Protagonista del film è infatti un residente di The Kitchen che si chiama Izi (interpretato dal rapper inglese Kano, al secolo Kane Robinson) che incontra per caso, nell’agenzia di pompe funebri dove lavora, Benji, un ragazzino che ha appena perso la madre. Izi conosceva la donna, anche se minimizza questa conoscenza, e nega il fatto che lui, come detto dalla donna al figlio prima di morire, possa essere il padre del bambino.

Nell’estetica, e ancora di più nello stile delle riprese, The Kitchen richiama alla memoria molte cose di I figli degli uomini, senza però arrivare a eguagliare - né, a ben vedere, tentare di farlo - i virtuosismi di Cuarón. Sarà l’ambientazione, e l’aria vagamente sci-fi, ma dentro a questo film si ritrovano anche memorie del sottovalutato Attack the Block di Joe Cornish.
Nella sua superficie, insomma, il film funziona e non è privo di fascino (pur derivativo), complice probabilmente il background architettonico di Tavares, che avrà sicuramente contribuito a ricreare questa Londra futuribile e dal look affascinante.
Quel che funziona meno, è la storia, che non solo non riesce a fondere nella maniera migliore la vicenda privata e il contesto collettivo (che finisce per risultare molto sacrificato), ma che declina in  difetto quel che a monte era cercato e sviluppato come un pregio.

Il tono emotivo del film si accorda su quello del personaggio di Izi, che fin dalle prime scene conosciamo come chiuso in sé stesso, quasi sordo al prossimo nel nome della sua sopravvivenza, deciso a rigare dritto e a lavorare fino a mettere da parte danaro abbastanza per lasciarsi The Kitchen alle sue spalle. Izi è silenzioso, imploso, e se è vero che Kano riesce a raccontare senza troppo supporto verbale i suoi disagi e i suoi conflitti interiosi, lo è anche che questa modalità, specie quando viene declinata nel rapporto con Benji, finisce con mettere una sordina eccessiva al vibrare di ogni emozione.
Era attaverso i silenzi, i non detti, gli errori perdonati con uno sguardo, che The Kitchen voleva raccontare il rapporto sempre più stretto, sempre più inevitabilmente padre-figlio, tra Izi e Benji. Quel vuoto, però, che pure è funzionale a un pudore, troppo spesso, e a contrasto col tumulto visivo e sociale che lo circonda, finisce per essere un buco nero che risucchia via, e disperde, l’attenzione dello spettatore e il suo interesse per la storia.



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