Primo film presentato in concorso (e scelto per la cerimonia di apertura) alla Mostra del Cinema di Venezia numero 75, First Man, il ‘primo uomo', di Damien Chazelle, delude amaramente ogni aspettativa che la piega di euforica libertà e fantasiosa creatività cinematica di La La Land autorizzavano ad aspettarsi qui al Lido. Il problema di Chazelle è che se sostenuto da una partitura musicale o da una coreografia danzata, il suo cinema segue un filo rosso con risultati che possono piacere (chi scrive è tra coloro che hanno gridato al miracolo per La La Land) o non piacere (più manierato senz'altro il precedente Whiplash), una sorta di percorso fondato su una fenomenologia di eventi e di punti da congiungere a matita, come nel famoso giochino della Settimana Enigmistica; mentre in assenza di musica o di movimenti coreografici da inseguire, inquadrare ed editare per esaltarne il vigore espressivo e cinetico, sembra quasi che lo sguardo di Chazelle sia affetto da un'inerzia e da una lacunosa mancanza di immaginazione. Si ha troppo spesso la sensazione, guardando questo First Man, che il regista non abbia idea di cosa far fare ai suoi attori, né di come utilizzare il cinema per restituirci il senso delle loro azioni, la forza delle loro emozioni. Il First Man del titolo è l'astronauta Neil Armstrong, primo uomo ad aver calpestato il suolo lunare il 20 luglio (in Italia era già 21) 1969. Ispirandosi a un fatto reale e a una biografia ufficiale Chazelle illustra, con i criteri del ‘period piece', gli anni tra il 1961 è il 1969, in cui l'ingegnere della NASA si iscrisse al programma Apollo e si addestrò per prepararsi alla grande impresa, forse l'impresa più spettacolare ed eroica della seconda metà del XX secolo, determinante punto a favore degli Stati Uniti ai tempi coinvolti in una Guerra Fredda che, almeno nello Spazio, dalla cagnolica Laika al viaggio di Gagarin aveva fatto registrare trionfi esclusivamente Sovietici.
Colpiscono nel film, purtroppo negativamente, alcune scelte di tono che ammantano il racconto di una mestizia e di un'intimità dolorosa (Armstrong perse la sua figlioletta colpita in età giovanissima da una malattia grave e inesorabile, tragedia dalla quale il suo matrimonio, pur benedetto da altri due figli, subì un inevitabile e irreversibile contraccolpo) che spengono la vitalità e lo slancio che dovettero caratterizzare l'intero progetto Apollo e le missioni lunari. La NASA, che in quegli anni era per l'Occidente quella che oggi potrebbe essere la Apple di Cupertino, ne esce come una azienda che fabbricava scalcagnate carabattole di latta ad alto rischio di mortalità, troppo spesso malfunzionanti e difettose. L'apparato di tecnici, istruttori, astronauti, e l'intero personale coinvolto nella più importante conquista dell'Umanità dai tempi dell'impresa di Cristoforo Colombo ha, sullo schermo, facce tristi, cupe, sconsolate, preoccupate, secondo l'idea di un progetto di cinema che vorrebbe tendere ad evitare ogni enfasi retorica, ad attenuare ogni sentimentalismo, con il risultato di un racconto fin troppo minimale degli eventi, piccoli e grandi, privati e pubblici della vita di Neil Armstrong (un Ryan Gosling mai così congelato in una permanente catatonia espressiva), che si consuma ed esaurisce in una mosceria malickiana che vorrebbe esprimere molto più di quanto effettivamente non riesca a mostrare. Delle sezioni più eminentemente ‘tecnologiche', dall'esercitazione iniziale – che già denuncia carenze di qualità cinematografica e spettacolare inammissibili in una sequenza introduttiva – alle prove attitudinali a terra, si salva pochino, complici la sgradevole grana della fotografia e l'eccessivo, ingiustificato tremolìo della macchina da presa a mano di Linus Sandgren, che nel caso avesse voluto ricostruire la pasta e il tremolio dei coevi filmini in 8 millimetri, va serenamente ammesso: ha miseramente fallito. Sorprendentemente fastidiosa, il più delle volte, nella sua insipienza o nella sua invadenza, la colonna sonora di Justin Hurwitz, messo fortunatamente a tacere sulle immagini dello sbarco e della passeggiata lunare, forse il solo momento convincente del film come ricostruzione di uno sguardo cinematografico posato su un evento storico mediaticamente tanto celebre; eppure anche qui Chazelle scarseggia per invenzione registica (senza contare un dettaglio inserito certamente per toccare il cuore degli spettatori, che i più smaliziati troveranno uno stucchevole colpo basso), là dove poco prima era riuscito, senza troppo calcare la mano e in maniera decisamente elegante, a citare lo Spazio kubrickiano di 2001, uscito al cinema giusto l'anno prima. Peccato.
(First Man); Regia: Damien Chazelle; sceneggiatura: James R. Hansen, Josh Singer; fotografia: Linus Sandgren; montaggio: Tom Cross; musica: Justin Hurwitz; interpreti: Ryan Gosling, Claire Foy; produzione: Amblin Entertainment, DreamWorks, Perfect World Pictures; distribuzione: Universal Pictures; origine: USA, 2018; durata: 135'
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