Che senso ha, o può avere, fare oggi un film che racconti la storia di Neil Armstrong, e dello sbarco dell’uomo sulla Luna? A questa domanda ognuno può dare la risposta che preferisce; Damien Chazelle, dal canto suo, la risposta la lascia cadere, implicita, dentro un film che cerca la spettacolarità senza abusarne, che più che l’epica cerca l’intimità, e che è tutto costruito sulla contrapposizione tra gli spazi chiusi, fisici e psicologici, e lo Spazio nella sua grandezza infinita, soprattutto ideale.
La storia di Il primo uomo è una storia fatta di lutti, di fatiche, di sofferenze. Il lutto di Armstrong, quello più terribile, quello della morte di una figlia, che ha tenuto sempre chiuso dentro di sé. Quello per la morte di tanti amici e colleghi, avvenute nel corso di test e percorsi di avvicinamento a un risultato finale, quello del 20 luglio 1969, cui si è giunti dopo sforzi immani e dolorosi.
Non è che Chazelle dica che ne è valsa la pena: anche se, tutto sommato, lo lascia intendere, pur dando anche spazio anche le critiche "sessantottine" di Kurt Vonnegut e Gil Scott Heron al programma spaziale e ai dollari che bruciava. Quello che dice è diverso.
Dice, attraverso la punteggiatura del suo film, che non è che la vita cinquant’anni fa fosse migliore o più facile di quella di oggi: era dura tale e quale a quella di oggi, solo che allora c’era ancora la forza e la voglia di inseguire un Sogno, la speranza di andare oltre il brutto e il male, di superare i fallimenti, e di farlo attraverso un duro lavoro, l’abnegazione, la serietà e la compostezza dei modi.
«Falliamo qui non per fallire lassù,» dice l’implosissimo Armstrong di Ryan Gosling a un certo punto.
Che è un po’ come dire “falliamo qui per poter imparare e raggiungere i nostri scopi”: per vedere cose mai viste, e avere la forza di cambiare prospettiva e punto di vista sulle cose, sul mondo, sulla nostra stessa vita.
Arrivare sulla Luna come elaborazione di un lutto: un gigantesco balzo anche per un uomo, mica solo per l’umanità, ma Armstrong era troppo composto e trattenuto per ammetterlo, lui che s’infastidiva perfino alle domande sceme ricevute in conferenza stampa (ed erano gli anni Sessanta).
"Marinai del cielo", vengono a un certo punto definiti lui e i suoi compagni d’avventura. Come un marinaio, l’Armstrong di Il primo uomo è ruvido e silenzioso, scruta l’orizzonte (curvo) sapendo già dentro si sé quello che ci troverà, mentre le sue navi scricchiolano, cigolano, tremano e rischiano di andare alla deriva come velieri in una tempesta. E lui tiene la barra dritta, forte della sua morale, della sua missione, di quel dolore che deve colmare.
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