Guatemala, al giorno d'oggi.
In uno scenario di quieta abitudine al peggio si consuma la storia di José, un ragazzo poco meno che ventenne incapace a trovare una propria strada nella vita.
Costretto a vivere con la madre che lo terrebbe a casa per tutti gli anni a venire, José vive con pochi contrasti la propria omosessualità. Di giorno lavora come cameriere in una sorta di ristorante accalappiando e servendo clienti che spesso consumano i loro pasti seduti nelle loro macchine, la sera è con la madre, a cena, ringraziando Dio del suo lavoro e della situazione familiare che, se non altro, potrebbe essere peggiore di quel che invece è.
Per gli incontri occasionali che fanno le sue giornate, il ragazzo deve ritagliarsi un tempo nelle pause dal lavoro, spesso prese di stramacchio, lontano dagli occhi di un datore di lavoro dal rimprovero facile, ma che non licenzia mai perché si sa che così vanno le cose al mondo. Sono momenti di un sesso frettoloso, pulsionale, lasciato nelle ellissi del racconto tra le tante cose che semplicemente succedono.
Poi l'incontro con Luis, di poco più grande di lui, un lavoratore edile che pure ama la sua famiglia di origine, ma che non esita a sognare una vita per conto suo e una stanza tutta per sé.
Per José l'incontro è un dito puntato verso la luna della possibilità di una vita diversa. È il brivido dell'avventura, ma anche la speranza di poter essere se stesso senza troppi infingimenti. Un'utopia piccola, in fondo: una casa insieme e la possibilità di toccarsi senza l'incubo degli orologi degli alberghi a ore.
Perché i due giovani si amano davvero e la tenerezza scorre nel loro rapporto nei dettagli piccoli dei sorrisi minuti, delle confidenze inaspettate, del loro reciproco scoprirsi mentre il sesso non sta più nelle ellissi, ma resta comunque miracolosamente sempre in mezzo alle cose che semplicemente accadono.
José, però, non ce la fa. È figlio di un sistema che lo schiaccia da ben prima del rapporto con la madre, efficace metafora, quest'ultimo, di una realtà sociale che poco punta sulle nuove generazioni e spesso le lascia nelle scuole senza tetti e senza libri.
José non regge alla tensione della frattura necessaria alla ricerca della propria felicità e resta piuttosto adagiato in una routine che ora si fa gabbia asfissiante e che neanche i terremoti scuotono davvero. E tutto quello che c'era prima di Luis si ripete anche dopo che lui se ne è andato, ma senza fame. Neanche negli incontri occasionali che riprendono, ma spesso non sono consumati sino in fondo.
Li Cheng, il regista di José, si definisce un nomade: dalla Cina delle sue origini ha cercato casa negli Stati Uniti e ora studia il Sud America con la pazienza dell'antropologo. Forte di questo atteggiamento entra sereno in una cultura familista e machista come poche e studia, con sguardo intriso di realismo e una camera votata al pedinamento, la difficoltà del farsi uomo di un personaggio esemplare come pochi. Ne risulta un film mai freddo, nonostante certe parvenze documentaristiche, che ha il merito di dire senza sovrapporsi, e senza quasi mai tradire la propria onestà intellettuale.
(José); Regia: Li Cheng; sceneggiatura: Li Cheng, George F Roberson; fotografia: Paolo Giron; montaggio: Lenz Claure; musica: Yao Chen; interpreti: Enrique Salanic (José), Manolo Herrera (Luis), Ana Cecilia Mota (Mom); produzione: YQstudio LLC; origine: Guatemala, 2018; durata: 85'
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